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 2016  luglio 02 Sabato calendario

Le cinque donne che hanno incastrato Ignoto 1

L’ultimo sguardo disperato prima di essere riportato in carcere per scontare l’ergastolo è per sua moglie Marita Comi. Una richiesta di aiuto, una supplica rivolta a una delle cinque donne che hanno segnato questo processo e soprattutto la sua vita. Perché sono state loro, ognuna con un ruolo diverso, a «inchiodare» Massimo Bossetti come l’assassino di Yara Gambirasio. Tre sono in aula, due hanno atteso il verdetto a casa. Tutte sono pedine fondamentali di una vicenda che segnerà la storia giudiziaria italiana. Perché per la prima volta l’indagine su un omicidio si è svolta al contrario, partendo da un codice genetico. Dopo l’uscita di scena di Mohamed Fikri – il marocchino subito indiziato e poi completamente scagionato – non c’erano altri sospettati. Gli investigatori avevano soltanto la certezza che «Ignoto 1», l’uomo che aveva lasciato il proprio Dna sugli slip e sui leggings della giovane vittima, fosse il figlio illegittimo di Giuseppe Guerinoni, autista di pullman morto nel 1999. E da lì si è partiti comparando migliaia di tracce, ricostruendo tassello dopo tassello una vicenda incredibile. Fino ad arrivare a quel muratore con i capelli tinti, il pizzetto biondo, la fissazione per l’abbronzatura.
Il pm Letizia Ruggeri
Ha coordinato l’indagine sin dal giorno della scomparsa di Yara. E quando ha ricevuto l’esito del test che partendo da quelle minuscole tracce di sangue ricostruiva il profilo dell’assassino, ha sfidato critici e scettici ordinando migliaia di analisi pur di arrivare alla verità.
Lo aveva promesso ai genitori di Yara. Ieri Bossetti, nella lunga dichiarazione spontanea in aula prima che la Corte entrasse in camera di consiglio, ha definito «vergognosi, i tentativi e le pressioni per farmi confessare» riferendosi proprio a lei. In realtà lei l’ha interrogato soltanto due volte. La linea difensiva di lui è stata granitica nel proclamarsi innocente, lei ha preferito procedere con il rito ordinario anziché l’immediato, come invece aveva ipotizzato dopo aver letto il risultato di piena compatibilità del Dna.
Il gip Ezia Maccora
L’ordinanza di cattura per Massimo Bossetti porta la sua firma. Appena undici pagine depositate il 19 giugno 2014 – tre giorni dopo il fermo disposto dal pm – per mettere in fila gli elementi dell’accusa e decidere di mandarlo in carcere. Perché è vero che il Dna è stato ritenuto la «prova» regina, ma è pur vero che al muratore sono stati contestati anche altri quattro indizi: l’aggancio delle celle telefoniche sulla palestra frequentata da Yara; le sfere di metallo – caratteristiche di luoghi dove ci sono cantieri edili – trovate nelle scarpe della vittima; la mancanza di alibi; le fibre tessili sui vestiti della giovane ritenute «compatibili» con quelle del suo furgone. Il suo giudizio è stato categorico: «Le complessive dichiarazioni rese da Bossetti non sono idonee a scalfire l’indizio principale, cioè la traccia biologica».
La madre Ester Arzuffi
È il personaggio chiave di questa storia. Nulla ha detto ai suoi familiari dopo il 26 gennaio 2011, quando le analisi scientifiche hanno stabilito che l’assassino di Yara era il figlio illegittimo di Giuseppe Guerinoni. Ha continuato a tacere anche dopo essere stata sottoposta al test del Dna, come le oltre 500 donne della Val Seriana. E di fronte alle contestazioni della sua relazione extraconiugale con l’autista di Gorno – provata dal fatto che proprio le analisi del sangue hanno confermato che era il padre di Massimo Bossetti e della sua gemella Laura – ha negato anche l’evidenza sostenendo che si trattava di un clamoroso errore.
Massimo Bossetti gliel’ha contestato in maniera netta durante un colloquio avvenuto in carcere l’8 novembre 2014, quattro mesi dopo l’arresto. E di fronte a Giovanni Bossetti, l’uomo che ha sempre ritenuto il suo vero padre, le ha gridato: «Il dna non mente, soltanto tu sapevi la verità».
La moglie Marita Comi
Pubblicamente ha sempre difeso il marito Massimo Bossetti, anche quando la loro vita è andata in pezzi. Ma nei confronti privati, nella sala colloqui del carcere, si è mostrata scettica sulla sua innocenza, lo ha incalzato più volte. Sono state le intercettazioni ambientali a rivelare i dubbi della donna, che mai ha potuto fornirgli un alibi sostenendo di non ricordare a che ora era tornato a casa la sera della scomparsa di Yara. Come quello espresso senza troppi giri di parole il 4 dicembre 2014, quando i carabinieri del Ros hanno depositato i filmati che mostravano il furgone di Bossetti girare intorno alla palestra: «Tu eri lì. Non puoi girare lì tre quarti d’ora, a meno che non aspettavi qualcuno... Non mi hai mai detto dov’eri».
Il giudice Antonella Bertoja
Ha condotto il processo seguendo regole rigide e cercando soprattutto di stringere i tempi. Ha eliminato dalle liste oltre 500 testimoni, ha ritenuto non necessario ripetere il test del Dna ritenendo pienamente attendibili le analisi già svolte. E ieri mattina, prima di ritirarsi per la sentenza, la presidente della Corte d’Assise ha voluto ribadire che «la legge impone di dare l’ultima parola all’imputato». In realtà l’ultima parola è stata la sua, dopo una discussione durata oltre dieci ore e un confronto con la giuria popolare. Ergastolo. Ed è la parola che – almeno per ora – chiude la storia. Consegnando ai genitori di Yara una prima verità sulla terribile fine della loro figlia, morta di stenti in un campo di Chignolo d’Isola.