Corriere della Sera, 2 luglio 2016
Il caos del Bangladesh, spiegato bene
Prima uno stillicidio di omicidi. Quasi cinquanta nell’arco di diciotto mesi in diverse zone del Bangladesh. La fase della preparazione per intimorire i tanti nemici, provare le proprie forze, reclutare. Poi il salto di qualità con l’attacco seguito dalla presa d’ostaggi, secondo le tattiche impiegate prima da Al Qaeda e quindi dallo Stato Islamico che si è subito assunto la responsabilità per dare maggiore peso alla sua campagna globale. Basta agire per essere inclusi nella chiamata alla lotta lanciata dal portavoce Mohamed al Adnani nei primi giorni di giugno in vista del Ramadan.
La tradizione estremista nel Paese musulmano risale ai tempi della lotta contro i sovietici in Afghanistan. Allora molti bengalesi si sono uniti ai mujaheddin e, successivamente, non pochi sono confluiti nel movimento di Bin Laden. Chi è rimasto legato alla linea di Osama è finito in fazioni come Ansar al Islam e Jamatul Mujaheddin. Gruppi composti da alcune centinaia di elementi suddivisi in cellule. Una presenza diffusa che ha portato a molti agguati. Spesso azioni condotte con armi semplici, sufficienti comunque per dare del filo da torcere alle autorità. Una minaccia raddoppiata dall’apparizione dello Stato Islamico.
Nell’agosto del 2014 un nucleo di estremisti ha dichiarato fedeltà ad Al Baghdadi, un giuramento ribadito in ottobre. Come in altre regioni del Califfato, i militanti hanno proceduto per tappe. Prima il proselitismo, l’attività di reclutamento e propaganda, lo studio dei possibili target. Il 28 ottobre 2015 l’apertura del fronte: i terroristi assassinano l’italiano Cesare Tavella. Pochi giorni dopo nuovo colpo con l’omicidio di un giapponese. A seguire altri episodi, con le vittime talvolta aggredite a colpi di machete. Colpevolmente il governo ha reagito con un atteggiamento incomprensibile e pericoloso, perché la linea è stata quella di negare l’esistenza dell’Isis all’interno dei confini. Difficile però sostenere questa finzione davanti al ripetersi di episodi, così come alle rivelazioni dello stesso movimento.
La rivista Dabiq, organo di informazione dello Stato Islamico, ha rivelato l’identità del presunto leader, lo sceicco Abu Ibrahim al Hanifi. Dietro questo nome si nasconderebbe in realtà Jamin Chowdhury, un attivista che ha trascorso molto tempo nel sud ovest dell’Ontario, in Canada. Per gli analisi il capo è stato abile nel pescare affiliati tra medici, ingegneri, architetti. Profili alti, di persone non proprio ai margini della società, individui con un ottimo background. Quindi li ha divisi in due schieramenti, uno nella zona di Mirpur e l’altro in quella di Gazipur. Lavoro meticoloso, già visto in Medio Oriente o in Nord Africa secondo un canovaccio sempre più simile ad un manuale.
Una strategia vincente perché persino alcuni qaedisti si sono avvicinati a quelli che in teoria dovrebbero essere dei rivali.
L’intelligence ha anche osservato che Al Hanifi ha delle ambizioni regionali. Nei messaggi ha sostenuto di aver instaurato rapporti con la «provincia» del Khorasan, ossia i fratelli dell’Isis che si sono aperti la strada sull’asse Pakistan-Afghanistan con attentati o incursioni guerrigliere. Una tendenza ad allargare l’orizzonte operativo confermato dall’arresto di alcuni sospetti terroristi del Bangladesh a Singapore. Senza dimenticare poi i volontari arrivati, da tempo, in Siria e in Iraq.
È in questa cornice che va chiusa la strage nella capitale. Con l’Isis che sceglie la formula di sangue ormai ben nota che prevede l’assalto ad un locale pubblico (o in hotel), i fendenti mortali sui clienti e la cattura di «prigionieri» inermi. In un sovrapporsi di operazioni coordinate multiple e atti individuali che accomunano Parigi, Giacarta, Istanbul, Dacca. E domani chissà quali altri città diventate bersagli dell’offensiva.