L’Illustrazione Italiana, 6 febbraio 1916
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Biografia di Emilio Treves
L’ora tristissima che noi nemmeno sapevamo immaginare incisa sul quadrante della realtà, pur troppo la freccia del destino l’ha segnata!... Emilio Treves, il fondatore e fino all’ultimo istante di sua vita, direttore vigile e luminoso di questa Illustrazione Italiana, che era da oltre quarantadue anni la prediletta fra le sue intellettuali creazioni, è scomparso per sempre dalla vita – lui che, fino a due settimane fa, fino poche ore prima di dovere ricorrere, improvvisamente, alla rapidità della mano chirurgica, si proclamava gaiamente, nell’intimità dell’amicizia «giovine e pieno di vita!...» pur avendo compiuti gli ottantuno anni il 31 del dicembre passato!...
Gli è che alla fastidiosità del vecchio enfisema, alle molestie ricorrenti degli ostinati catarri, agli acciacchi di una vita di lavoro indefesso – inevitabilmente antigienica non ostante le agiatezze di una esistenza compensata giustamente dalla fortuna – egli contrapponeva tutto il vigore di un cervello ampio, possente, meraviglioso – un cervello che agli scienziati di altri tempi sarebbe apparso eccezionale soggetto di indagine e di studio, per trarne sempre nuovi elementi alla conoscenza di quella magnificenza della creazione che è appunto l’umano cervello – in lui indubbiamente dotato di tutti i più rari pregi della perfezione.
La mattina del giorno nefasto – del venerdì 14 gennaio – egli aveva concretato con chi scrive queste linee il piano definitivo di un lavoro editoriale: la sera, rivedendo l’«amico e collega – come egli nel giorno avevagli scritto – aveva mutato di sana pianta tutto il disegno!...
– Ma come?... Non eravamo già così bene intesi questa mattina?...
– Sì, hai ragione; ma, cosa vuoi, io sono ancora giovane!... – E qui una delle sue solite brevi risate gutturali di compiacimento. – Ho il cervello che lavora sempre… Ho mutato, e mi pare che vada molto meglio così!...
In realtà, egli aveva ragione – questa volta, come tante altre; la mobilità del suo spirito, la rapidità di vedere, di criticare e di riconcepire del suo cervello fenomenale, finiva quasi sempre coll’arrivare al punto giusto, all’assetto migliore, e non si poteva a meno di riconoscere la giustezza finale di quei movimenti della sua volontà che, ai superficiali, potevano parere irrequietezza e volubilità.
Era sempre stato così, fino da fanciullo – era l’indomabile, l’incontentabile, non per difetto di energia intellettuale e morale, ma per eccesso.
Era nato a Trieste, nel 1834, da un padre dotto e di bella elevazione spirituale, il rabbino dell’università israelitica, Sabbato Graziadio Treves, vercellese di origini, considerato in Piemonte, come in Trieste, uno dei rabbini più illuminati e liberali del suo tempo. Quando nel 1856 il dottor Treves ritornò per alcune settimane in Piemonte, gli furono fatte dai concittadini accoglienze pubbliche festosissime, registrate dai giornali liberali d’allora e mutatesi in breve in dimostrazioni di compianto per l’improvvisa morte di lui.
Emilio fu portato dalle inclinazioni della mente e dello spirito alla letteratura: esordì sedicenne con un dramma. Ricchezza e miseria, al quale tenne subito dietro un Duca d’Enghien – che a Trieste fu dalla censura proibito: poco dopo – nel 1853 – quando fu pubblicato, la Imperiale regia Gazzetta di Venezia stampò che ci voleva un bel coraggio a scrivere un dramma tanto lungo da obbligare gli spettatori a starsene in teatro fino alle due del mattino; ma che la prefazione messa in fronte al libercolo, rivelava nella spavalderia che inspiravala la risolutezza di un giovine, che, «per qualunque via si fosse messo, sarebbe certamente riuscito».
Dopo sessantatré anni da quella profezia augurale, l’ammirazione dolorosa di quanti oggi in Italia – e sono la maggiore e miglior parte dell’intellettualità italiana – rimpiangono Emilio Treves, riconosce e rileva il pieno successo di una vita, tutta dedicata, con un’agilità insuperabile, al lavoro incessante e fortunato!...
Il Lloyd Triestino aveva impiantata in quei tempi un’azienda tipografica importante, con una sezione letteraria apprezzatissima, sul genere di quella dell’Antonelli di Venezia: la dirigeva il prof. Antonio Racheli, del quale Emilio Treves fu ben presto il segretario solerte. L’edizione dei Classici del Lloyd – un seicento volumi, di autori greci, latini, italiani – passò tutta sotto le mani, per gli occhi e per il cervello di Emilio, che ne fece una revisione non formale, ma consapevole, cosciente. Noi lo abbiamo udito, più volte, benedire quella lunga e penetrante saturazione culturale, per la quale abituò tutto sé stesso alla assiduità infaticabile, e diede alla mente capacissima le basi di quell’impostamento letterario classico, che lo rese poi formidabile – e noi, suoi compagni di lavoro ben lo sappiamo, e lo ricordiamo con intima commozione – in tutte le dispute su questioni di filologia, di gusto, di stile!...
La potenza assimilatrice del suo ingegno, la vivacità del suo temperamento, la prontezza del suo spirito critico non potevano fare di lui un semplice sgobbone ortodosso: la sua era una penna un po’ribelle, e perché tale, la polizia gli persuase non essere più propizia per lui l’aria di Trieste. Andò per qualche tempo a Parigi a farvi – meglio assai di molti altri liberali italiani, accintivisi per necessità, impreparati – il maestro d’italiano, come realmente era e fu sempre. Poi, gli fu concesso di rientrare negl’imperiali e regi stati, e trovò lavoro a Fiume, dove diresse una tipografia, collaborando anche nella bella strenna fiumana «Deh! pensa a me!» da lui sempre ricordata con compiacenza. Da Fiume si trasferì a Udine, ivi fece il precettore, veste nella quale venne anche a Milano, dove uno dei suoi allievi – l’avvocato e più volte assessore Morpurgo – può far fede della valentìa e del fervore di un maestro tanto saturo di dottrina.
Ma Emilio Treves a Trieste, a Fiume aveva gustato il sapore dell’inchiostro da stampa – e chi di quell’inchiostro una volta si è intinto, sempre si intingerà. Alla Gazzetta di Milano, diretta allora da Giuseppe Rovani, occorreva un provetto, rapido traduttore, ed Emilio Treves, che vi aveva la perfetta capacità e le molteplici attitudini, fu il prescelto, e le traduzioni gli lasciarono anche il tempo per alcuni articoli. In breve fu uno dei giornalisti più vivaci e più noti nei cenacoli milanesi di quel tempo.
Serpeggiavano in quei giorni le illusioni di una coscienza italiana ammessa e riconosciuta dall’Austria; uomini come Stefano Jacini, Cesare Cantù ed altri ancora, non escludevano la possibilità di concessioni aiutatrici di un risveglio nazionale, e si volle creare un giornale che interpretasse la momentanea tendenza. Il titolo era promettente – la Gazzetta d’Italia. Il numero di saggio fu preparato, con l’articolo di fondo, l’articolo programma, scritto da Emilio Treves: il numero di saggio, tirato in una sola copia, ufficialmente, in pochissime in realtà, fu mandato a Vienna, alla superiore censura, ad assaggiare. L’articolo di Emilio ottenne questo successo: sequestro del numero di saggio
soppressione del nuovo giornale, prima ancora che ne fosse cominciata la pubblicazione!... Vi furono delle polemiche: Emilio Treves e Leone Fortis, già a Trieste rivali sul Teatro, rivali a Milano nel giornalismo, si misurarono con le sciabole in mano, stringendosi poi le destre per un’amicizia intellettuale, fraterna non spezzata più che dalla morte.
Ma per gl’italiani avvicinavasi l’ora di battersi ben altrimenti che fra loro: suonò la riscossa del l859, ed Emilio Treves fu uno di quei Cacciatori degli Appennini che, sullo Stelvio, avrebbero emulato il valore di quelli delle Alpi, se l’armistizio di Villafranca non avesse arrestata d’un tratto la gloriosa rivendicazione nazionale.
Il volontario rientrò a Milano, libera; riprese il suo lavoro alla Gazzetta di Milano, ed anche nell’Uomo di Pietra, la cui collezione e le cui strenne annuali attestano della briosa vivacità e dell’acutezza di osservazioni di colui, che nel 1861 doveva provare finalmente la gioia, lungamente meditata e sospirata, di impiantare, in via Durini, una piccola azienda potendo dirsi finalmente «editore»!...
Quante e quali cure per quel modesto, romantico Museo di famiglia, che fu la crisalide di ben altre pubblicazioni periodiche illustrate, in elaborazione sin d’allora nel fervido cervello di Emilio, e culminate poi, dodici anni più tardi, nell’Illustrazione Italiana. E quanto lavoro, quale rapido ascensionale cammino in quei dodici anni, e più dopo!... L’Annuario scientifico, la Biblioteca Amena – e più completo, più vario, più ricco del Museo di famiglia, l’Universo illustrato; poi l’assettamento dell’azienda tipografica-editoriale in via Solferino 11, rilevata dal profugo ungherese Helfy; poi l’assunzione nel 1872 del fratello Giuseppe a socio ed organizzatore finanziario della nuova maggiore impresa – diventata dei Fratelli Treves, – integrata intellettualmente dal concorso di quell’egregia donna che vide tutte le fortune, partecipò a tutte le gioie, poi ai dolori dell’ultimo dodicennio – Virginia Tedeschi, Cordelia – i cui volumi pensati e sentiti hanno modellato e modellano ancor oggi tante anime giovanili!...
E vi era anche stato, fra le creazioni di Emilio Treves, un grande giornale quotidiano – grande per quei tempi – e grande sarebbe ancora oggi – il Corriere di Milano – giornale liberale costituzionale, della gloriosa scuola cavouriana, durato dal 1869 al 1874, e nel quale Emilio Treves profuse tutta la bellezza del suo ingegno, tutta la sua vivacità polemica, tutto il suo acume di pensatore politico e di talento critico letterario ed artistico, formando alla propria scuola quegli che allora era suo redattore capo – Eugenio Torelli Viollier, arrivato da Napoli a Milano in cerca di fortuna, e passato rapidamente dall’azienda del Sonzogno a quella tanto promettente dei Treves.
Il Corriere di Milano fu il progenitore genuino del Corriere della Sera, sorto nel turbinoso passaggio del costituzionalismo italiano dal tramonto della Destra all’aurora della promettente Sinistra. Emilio Treves, nella praticità del suo spirito, idealista insieme e positivo, sentì che non valeva più la pena di prodigare ingegno e fatiche nelle polemiche giornalistiche, insufficienti ad impedire ciò che era inevitabile; e dedicò da allora tutto se stesso ad accrescere la grande azienda editoriale, non solo, ma a far sorgere un grande giornale illustrato settimanale, degno veramente di tale nome, e della Patria italiana resuscitata. Nell’impresa difficile avevano fallito, ripetutamente, nel 1847-48 e nel 1860-61 il Pomba ed anche nel 1855 il Perrin; all’impresa aveva rinunziato il Cima con la sua Illustrazione Italiana dai disegni tirati in litografia; poi erasi dato per vinto il Sonzogno, che pure per parecchi anni aveva pubblicata una pregevole, grande Illustrazione Universale; non erano riusciti gli eredi Botta di Firenze, che col Nuovo Giornale Illustrato Universale avevano insistito per tre anni, nell’allora capitale d’Italia, in un lodevole esperimento.
Nel dicembre del 1873 Emilio e Giuseppe Treves fecero uscire dalle loro officine questa grande Rivista settimanale illustrata, che, da quarantatre anni, tiene degnamente il primo incontrastato posto, nel paese nostro, tra tutte le pubblicazioni del genere; e non solo gareggia, ma è arrivata agli scambi da pari a pari, delle proprie produzioni artistiche, grafiche coi grandi giornali confratelli di Parigi e di Londra.
Che cosa sia I’Illustrazione Italiana non tocca a noi dire. Ma la sua collezione è il documento ininterrotto e più immediatamente tangibile di quella che fu la costante, tenace, incrollabile fede ed operosità di Emilio Treves, sia come giornalista, sia come editore – giacché nelle pagine, in tutte le pagine dell’Illustrazione – in quelle di testo, come in quelle di avvisi, sono impressi settimana per settimana – si tratti degli articoli briosi firmati et o degl’insuperati ed insuperabili Corrieri firmati Cicco e Cola; si tratti delle Noterelle o delle riviste bibliografiche; si tratti degli avvisi in copertina – sono segnati tutti i movimenti di quello scoppiettante spirito onniveggente, che curava fino all’inquietudine angosciosa le bozze dell’articolo vibrantemente scritto e pregustato, e gli annunzi delle novità librarie, passati sotto una revisione minuziosa, nella quale riaffermavasi il temperamento tenace di colui che aveva mondati da giovine i seicento volumi dei classici del Lloyd Triestino!...
Perché Emilio Treves non era l’editore che pubblica i volumi avendoglieli qualche consigliere salariato o qualche amico od amica, per fiducia o per simpatia, suggeriti e fatti accogliere: no. Egli pubblicava dopo avere letto, dopo avere criticato, dopo avere discusso con gli autori, dopo avere consigliati mutamenti, perfezionamenti, soppressioni, suggerite dalla squisita sensibilità del suo cervello, dalla sua cultura, dal suo gusto, dall’acutezza del suo spirito, sempre sicuro di vincere le riluttanze degli scrittori, fossero pur essi i più apprezzabili, i più cari al pubblico, i più saldamente sicuri della propria fama e più inorgogliti dal successo.
Era così che gli autori diventavano poi suoi amici; era così che il Catalogo della sua Casa diventava una specie di Albo d’oro della letteratura italiana contemporanea; era così che l’ammissione in quell’Albo aveva valore come di un lascia-passare ambitissimo e sicuro alla via del successo; ed il franco, arguto, pronto, inoppugnabile controllo dell’editore-maestro era come il suggello di una dignità letteraria, tra gli autori invidiata, dal pubblico riconosciuta.
Non mette conto di correre dietro alle leggende che pretendono parlare di un editore avido e di poveri autori spennacchiati. Il catalogo degli autori di Emilio Treves si può dire la rubrica dell’amicizia – gli scomparsi prima di lui ebbero tutti la loro memoria infiorata e celebrata dalla sua devozione, i sopravvissutigli – e sono i nomi più belli della letteratura nazionale – hanno dato alla sua bara un plebiscito memorabile di riconoscenza affettuosa e di intimo attaccamento.
Certamente, ogni volume ideato ed accolto per la stampa mette capo, inevitabilmente, al fatto materiale della vendita, cioè, al momento industriale – senza di che non vi sarebbe l’industria libraria; ma chi ha vissuto – e ve ne sono ancora parecchi – chi ha vissuto i quindici, i venti, i trenta anni, e più, in contatto con Emilio Treves, può far fede del costante idealismo – idealismo di uomo d’ingegno, di uomo di cuore, idealismo sempre poi di italiano – che lumeggiò l’opera sua di editore, consapevole, cosciente, idealista sì, ma, naturalmente, pratico, volendo egli sempre che all’opera arridesse il successo – agli autori pei primi necessitando non meno della così detta «gloria» il risultato tangibile della più larga divulgazione.
E fu Emilio Treves, benemerito presidente e rinnovatore dell’Associazione Nazionale Tipografica Libraria ed operoso stimolatore della Società degli Autori – fu Emilio Treves il più tenace a propugnare e volere leggi e norme che proteggessero solidamente la proprietà letteraria, assicurassero gli autori contro le edizioni frodolente, riconoscessero i diritti immediati e postumi delle opere dell’ingegno.
Autore, editore, libraio egli fu anche tecnicamente tipografo: perché tutto ciò che connettevasi alla più perfetta produzione del libro sempre vivamente lo interessò; e l’amore e la stima grande che egli seppe meritarsi dalla maestranza delle sue officine – oltrecché dal profondo ed umanissimo sentimento di giustizia che era nell’animo suo e dalla democratica facilità e famigliarità del suo contatto personale – proveniva appunto dalla coscienza formatasi negli operai – che in realtà sono per molte cose i migliori giudici nostri – che l’editore era anche tecnicamente un maestro, scrutatore di tipi, vagliatore di caratteri e di ornati, valutatore di spaziature, di intercalazioni; capace di formare ad un compositore il gusto, come era capace di far mutare ad un autore, anche dei più applauditi, un periodo o magari un capitolo.
Ma tutto ciò egli faceva con gaiezza, con spirito, con una aperta vivacità che nulla aveva del petulante; con un’allegria comunicativa che penetrava l’animo di chi, a tutta prima, pensava di dovere lottare con lui, e poi, appena iniziata la contestazione, la controversia, presto arrendevasi alla immancabile risata che salutava la concordia.
E se talora determinavasi, ma ben raramente, l’urto – Emilio Treves, passato il primo momento, rimettevasi alle ragioni buone che fossergli state opposte; non aveva titubanza a ricredersi; non tollerava che rimanessero dubbi sulla sua franchezza, sulla sua lealtà; e nell’ammissione di quanto eragli sembrato da prima inaccettabile metteva tutta la festosità di un’anima profondamente buona, la cui gentilezza, veramente squisita, era fisiologicamente additata da una mano bellissima, modellata con grazia femminea, ed inspiratrice di delicate riflessioni al psicologo.
Né tocca a noi qui dire della simpatica piacevolezza della sua vita intima, così festeggiata pochi anni sono, quando, per le nozze d’oro con la sua degnissima compagna, signora Susette Thompson, e per le nozze recenti della cara nipote Mimì Mosso col nipote Mario Ferraguti, i numerosi amici, e specie gl’intimi, poterono goderlo in tutta la deliziosità di un temperamento fortunato, che con la moglie, con l’amatissima figlia Maria, coi nipoti, con gli amici sfoggiava la prodigalità dell’allegria più garbata e dilettosa, rapidamente attraversata dai corruscamenti provocati da qualche grossa svista del partner nell’immancabile partita a dòmino, a bridge od a bèzigue – maestro com’era, non per vizioso stimolo, ma per necessità di tenere sempre in esercizio l’ingegno e alerte il temperamento, anche attorno al tappeto verde, dove insegnava, disputava, interveniva tal quale come si trattasse di disciplinare qualche edizione o persuadere qualche difficile autore.
Di codesto singolarissimo cervello – che mai si prese, crediamo, più di cinque ore di riposo per notte – molto che siamo venuti qui rievocando, tra la tenerezza delle ricordanze e la mestizia del cuore, sarà meravigliosamente provato il giorno in cui i riguardi di contemporaneità superati permetteranno di pubblicare l’epistolario di Emilio Treves coi suoi autori e coi suoi collaboratori. Si vedrà allora quanto e come fosse veramente degno del nome di letterato questo editore, che se avesse scritte e pubblicate cose proprie sarebbe arrivato ugualmente alla gran fama cui giunse pubblicando consapevolmente cose altrui!... Quell’epistolario era, a volta a volta, l’espressione di tutte le più acuite qualità del suo ingegno, del suo prontissimo spirito, della sua sensibilità multiforme, della sua reale bontà, e di quella dignitosa coscienza di sé, che non lo abbandonò mai, nemmeno nei momenti in cui, anche nei tardi anni, lo spensierato del Ricchezza e Miseria o dell’Uomo di Pietra, faceva capolino, col suo naturale immutabile, nell’editore fortunato e riverito.
E mostrava talora, non la collera – questa mai – e mai poi il lungo, ostinato rancore – ma l’ira, talora… L’ira, per un errore di stampa, per una negligenza che un poco di elementare attenzione avrebbe potuto evitare: per un nonnulla che menomasse o la bellezza di un’edizione, o il pregio di un articolo, o la serietà di una notizia pubblicata nell’Illustrazione, la quale – diceva sempre egli – essendo settimanale, aveva, ha, più di ogni altro giornale, il dovere di andare monda da qualsiasi di quei tanti errori che ingombrano le pagine degli affrettati giornali quotidiani.
Ma c’è opera tipografica che possa vantare una tale incolumità?... Per ciò egli era, ancora ad ottantadue anni, ancora sul letto, che ne vide la morte, l’infaticabile revisore di stampe, – con la lena, con l’ardore, con la vigilanza indefessa dell’occhio linceo, aiutato ora dall’occhialetto soccorritore – quale erasi rivelato al Racheli nei tempi dell’azienda libraria del Lloyd triestino.
Né la solerzia sua industriale, la sua genialità rinnovatrice scemarono con gli anni: nello scatenarsi della gran guerra e nel delinearsi di quella italiana – pur essendo, fin che le ragioni del diritto nazionale poterono consentirla possibile, fautore della neutralità, e dopo, sincero auguratore della vittoria – ideò e guidò tutte le nuove serie editoriali dedicate alla guerra, e curò personalmente, fino al Quaderno che sta per uscire, i Diarii della guerra, pei quali appena un mese fa, rassegnandone a mano amica e sicura la compilazione, dettava pel «caro amico e collega» un programma fondamentale, che rispecchia tutta la intatta lucidezza del suo cervello organizzatore, tutta la preveggenza dell’editore consapevole dei desiderii, dei gusti, dei bisogni intellettuali del suo larghissiino. pubblico.
Poiché quest’uomo che, agli osservatori superficiali, poté anche parere mobile, volubile, scettico, egoista, contradditorio, – aveva in tutto l’essere suo la tenacia della logicità, della coerenza, della fermezza; in politica fu sempre un liberale moderato; in letteratura un classicista; in filosofia uno spiritualista superiore ad ogni pregiudizio confessionale; in arte un entusiasta del bello idealizzato; nei movimenti rapidissimi dello spirito anche un ribelle stimolato da una irriducibile gaminerie; nella realtà della vita un epicureo sperimentalista, che dalle sensazioni attinte alla non dissimulata gioia di vivere, trasse sempre i più nobili eccitamenti a promuovere il bene ed a farlo. Non era, no, un sentimentale precipitevole; il suo ampio ingegno rendevalo riflessivo, ed il suo illuminato scetticismo rendevalo schivo di ogni romore intorno al bene che faceva; rifuggiva dalla pompa esteriore, dal lusso, ancorché consentitogli dalla meritata agiatezza; e verso se stesso, verso quella sua piccola, saltellante, rotonda, caratteristica figura – per la quale rassomigliò ad un’altra luminosa figura avente con lui, e per l’onniscienza, e per la memoria pronta e vigorosa, e per la suscettività dell’umorismo scoppiettante molti punti di contatto – Ruggero Bonghi – per la sua persona ebbe sempre così pochi riguardi, che toccava agl’intimi, spesso, rimproverarlo come un fanciullo – e raramente dava retta, ché se avesse obbedito, chi sa quanti anni ancora avrebbe vissuto fra noi!...
In realtà, noi eravamo assuefatti all’idea che non lo avremmo perduto mai; e sebbene egli parlasse sovente, con filosofica serenità, della morte e del «di là» nel quale, come ogni spirito superiore, credeva, e fosse all’idea della morte così educato, da andare a scegliersi egli stesso, poche settimane sono, l’area dove nel Cimitero Monumentale la sua salma ora riposa – a noi pareva che questo nostro signor Emilio, che era il sole quasi senza macchie di un grande sistema planetario dell’intellettualità letteraria italiana, mai si sarebbe spento; e noi avremmo potuto continuare anni ed anni a dare all’opera nostra, alla nostra coscienza, ai nostri spiriti quel senso di sicurezza costante, assoluta, decisiva, che si riassumeva nella formula: «adesso sentiremo il signor Emilio!...».
L’uomo la cui mente capace tutto sapeva, tutto osservava, tutto ricordava; la cui sensibilità per ogni minimo evento vibrava; il cui spirito ad ogni istante era prodigo di sprazzi luminosi, ora non è più fra noi – non è più qui dove per cinquantacinque anni fu a tre generazioni maestro suggestivo di un’operosità, risultante contemporaneamente da una rara genialità e da una instancabile fatica. Noi, che l’abbiamo visto agonizzare, possiamo ben dire che anche quando il corpo cominciava a sentire gli effetti del disfacimento irrevocabile, il cervello, il grande cervello maraviglioso del Maestro, continuava a lavorare; perché quel cervello per almeno settanta anni – anche quando pareva che Emilio Treves si divertisse, si ricreasse, scherzasse, – non fece mai altro che pensare per lavorare e lavorare perché aveva pensato.
Dio, nel quale egli così altamente credeva, lo aveva animato di quel soffio creatore e segnato con quelle impronte di sovrana energia onde sono formati i fondatori – e per le virtù iniziali e fondamentali sue l’opera da lui fondata durerà, vigilata da tutti gl’insegnamenti del grande amico e Maestro, legge e disciplina alla nostra immutabile devozione!...
I FUNERALI.
Le onoranze funebri tributate nel pomeriggio di lunedì scorso, 31 gennaio, ad Emilio Treves, riuscirono una attestazione veramente solenne del grande, vivo, generale compianto destato in Milano e in tutta Italia dalla sua morte.
La salma, dalla casa di salute, dove egli, alla mezzanotte del 30 gennaio – dopo quindici giorni di degenza – spirò, era stata trasportata al palazzo di via Brera 21 – dove egli abitava da quasi quaranta anni; e di qui alle l5 mosse l’imponente corteo, aperto da carri e vetture carichi di ben quarantatre corone inviate da amici devoti, da sodalizi, da rappresentanze. Seguivano le rappresentanze, del Pio Istituto Tipografico, di cui Emilio Treves era antichissimo benemerito socio; della Società Reduci dalle patrie battaglie e della Società Garibaldini, essendo egli stato volontario garibaldino nel 1859 nei Cacciatori degli Appennini; poi la densa massa degli appartenenti alla società interna di mutuo soccorso fra il personale dello stabilimento Fratelli Treves, preceduta dalla bandiera sociale, e da una magnifica corona portata a mano.
Attorno al carro, a reggere i cordoni stavano, a destra, il vice-prefetto comm. Frigerio, in espressa rappresentanza del ministro Ferdinando Martini, il commissario civile, senatore Cassis, il direttore del Corriere della Sera, senatore Albertini, l’editore comm. Bemporad, ed il cav. Enrico Brunetti, direttore della tipografia Treves, compagno di lavoro dell’Emilio da quarantotto anni; – a sinistra il senatore Della Torre, consigliere delegato della Società Anonima Fratelli Treves, Arrigo Boito, amico intimo di Emilio Treves da quasi sessant’anni, Ugo Ojetti, ed il cav. Emilio Alfieri, vice-presidente dell’Associazione Tipografico-Libraria Italiana.
Immediatamente dopo il carro seguivano la figlia, signora Maria Treves vedova Mosso, la figlia di questa signora Mimì Mosso Ferraguti, il nipote Guido, condirettore con Emilio dell’Illustrazione, i nipoti Ferraguti, Sinigaglia, la cognata, signora Virginia Tedeschi Treves, ed i più intimi collaboratori di Emilio Treves; poi tutta una folla innumerevole di senatori, deputati, letterati, pubblicisti, artisti, editori, personalità, amici, signore e signori, onde è impossibile una elencazione, che darebbe luogo a rincrescevoli omissioni.
Il corteo, passando in mezzo a due fitte ali di cittadini, sfilò da via Brera e via Solferino per via Palermo passando davanti a quello stabilimento Treves dove Emilio fu per quasi mezzo secolo esempio a tutti di instancabile, sorprendente operosità; poi per corso Garibaldi e via Volta al Cimitero Monumentale, dove, davanti alla gradinata del Famedio, fra le rappresentanze e la eletta folla dispostasi ad anfiteatro, la cara salma ebbe gli estremi saluti.
Parlò primo il comm. Frigerio, vice-prefetto, esprimendo il cordoglio del suo mandante, il ministro delle Colonie, Ferdinando Martini, legato a Emilio Treves da antica amicizia, da rapporti frequenti come autore, come insigne collaboratore dell’Illustrazione Italiana.
Prese quindi la parola il senatore Luigi Della Torre, consigliere delegato della Società Anonima Fratelli Treves, leggendo con accento vivamente commosso, così:
«Depose il lavoro e col lavoro la vita.
«L’uomo che giunto a Milano solo, senza aiuti, senza appoggi aveva saputo compiere la grande opera, ci ha lasciati d’un tratto, mentre pareva che pur nella tarda vecchiezza rifluissero in lui le inesauste linfe della vita, del valore.
«Quale grande opera di bene egli aveva col lungo lavoro iniziata, eretta, compita! Dal giornalismo politico egli si ritraeva per dedicarsi a quel Museo di famiglia che fu la prima semente della Illustrazione italiana, della Illustrazione popolare, dei numerosi giornali della moda e della famiglia che sono nelle nostre case a portarvi la nota dell’avvenimento che passa, il consiglio dell’eleganza, il disegno che l’arte vivifica, la storia degli eventi che ci hanno preceduti.
«E tutto il fiorire della nostra letteratura; dai primi romantici ai novellieri pervasi di un raffinato umorismo, dall’immaginosa poesia del nostro grande Poeta vivente, alle frementi passioni di umanità di Ada Negri; dalla storia riccamente illustrata, agli annuari scientifici; dalle pubblicazioni popolari di scienza alle più raffinate dilettazioni delle lettere, è tutto un mondo dove i migliori nomi della nostra letteratura si seguono, dove accanto ai maggiori si affacciano timidi i novizi, tutti da lui confortati col consiglio dettato da un gusto squisito, da una percezione sicura, meravigliosa di quanto potea rispondere alle necessità di gusto e di cultura del nostro popolo.
«E quando, sono ormai dodici anni, io ebbi l’onore di essere chiamato a partecipare a quella impresa nel nome e per mandato della quale io devo oggi parlarvi; quando noi ammiratori dell’opera meravigliosa di Emilio Treves ci avvicinammo a Lui colla devozione ed il rispetto che la grande opera ci inspirava, noi sentimmo di partecipare ad un’azione di coltura e di progresso che ci fece fieri ed orgogliosi di potere con Lui in modesta misura collaborare. Ritornano al nostro pensiero le brillanti, acute sue relazioni, mirabili di osservazioni limpide profonde racchiuse e vestite in una forma meravigliosa di plastica semplicità, di squisito sapore letterario, cosicché sempre ci dolevamo che il godimento che a noi profondeva fosse da troppo pochi gustato.
«E questa impresa, alla quale, il giorno della scomparsa dell’amato fratello e collaboratore, Egli si era dedicato con rinnovato, giovanile entusiasmo, non deve, non può perire. Noi sentiamo che è dover nostro di portarne innanzi la gloriosa insegna; noi sentiamo che i suoi precetti, lo spirito alacre ed instancato di Emilio Treves pervaderà quanti potranno esser chiamati a seguirne le mirabili tracce; noi sentiamo che quella intelligenza aperta ad ogni nuova corrente di pensiero, riguardosa di ogni delicato sentimento, pronta ad incitare le nuove forze del pensiero e delle lettere, dovrà informare l’azione nell’avvenire. E nell’atto in cui con tutto il nostro dolore, con tutte le nostre lacrime ci separiamo da Lui e come un vuoto senza termine invade le anime nostre, la solenne promessa che qui facciamo ci sembra l’unica degna del suo grande spirito che sorrideva della morte, come sorrideva della vita, ma un’intima fede rendeva strumento di coltura, di civiltà, di progresso.
«Il fiore che qui deponiamo dica a voi tutti il lutto del nostro cuore, che è il lutto delle nostre lettere».
Il cav. Enrico Brunetti, direttore della tipografia Treves e testimone quotidiano dell’opera di Emilio dal maggio del 1868, lesse, con le lacrime negli occhi e nella voce, questo suo sincero discorso:
«Poche parole io dirò davanti a questa bara, ma esse mi saranno dettate dal più sincero attaccamento all’uomo preclaro del quale noi tutti oggi piangiamo la perdita.
«Quarantotto anni di appartenenza alla Casa, per la più gran parte passati in continuo, giornaliero contatto con lui, non potevano non suscitare in me la più grande ammirazione pel suo alto intelletto e per le sue elette qualità. Egli era per noi un vero maestro. Ogni osservazione ch’egli ci facesse racchiudeva un insegnamento e i suoi consigli ci erano preziosi anche tecnicamente. Le difficoltà d’ogni sorta che ci si paravano davanti nel corso dei lavori, egli le sapeva sempre superare facilmente e genialmente. La sua vasta azienda, ch’egli seppe portare all’apogeo della prosperità, era da lui guidata con mano ferma e sicura, e ad essa dedicava tutta la sua grande energia.
«Tutto il personale dello Stabilimento lo stimava e lo amava senza riserva, e ne aveva ben ragione. Non capitava sventura a qualcuno del suo personale ch’egli, saputolo, non pensasse d’alleviare; non impotente al lavoro ch’egli non sussidiasse sino alla fine. In ultimo, a tutti i richiamati alle armi, accordava sussidi (e continueranno ancora) che per la quasi totalità raggiungono sino il 50 per cento del loro stipendio, punto curandosi di caricare con ciò il bilancio della Società d’un rilevante gravame.
«Nelle non frequenti divergenze e competizioni riguardanti l’interpretazione delle tariffe concordate della mano d’opera tra la Casa e gli operai, questi ultimi molte volte preferirono trattare fiduciosi direttamente con lui, perché lo sapevano buono, giusto ed equanime, ed egli rispondeva a tale fiducia dando quasi sempre ragione al più debole.
«Per avere un’idea della sua equanimità, narrerò brevemente un fatterello accaduto alcune settimane prima che la Morte ce lo rapisse. Discutendo con lui circa il prezzo domandato da un tipografo al quale si voleva affidare un lavoro, ed avendogli io fatto rilevare che tale prezzo era esagerato, egli, dopo aver discusso un poco, concluse:«Ebbene, fa tu; ma mi raccomando, non tirare troppo la corda, non strozzarlo!».
«Il compianto signor Treves era un lavoratore infaticabile, fenomenale. Egli trovava tempo a tutto, tutto voleva vedere, tutto controllare di quanto si produceva nel suo grandioso Stabilimento; e noi si restava meravigliati del come potesse giungere a tanto.
«Non si comprende come il Governo non abbia mai pensato di insignire un cosi forte lavoratore dell’Ordine al Merito del Lavoro. È bensì vero ch’egli, vedendo eletti Cavalieri del Lavoro molti che erano già Commendatori, Gran Croci, Gran Cordoni, in uno dei suoi brillanti Corrieri settimanali dell’Illustrazione Italiana scrisse che gli sembravano altrettanti generali promossi caporali. Ma tant’è, egli avrebbe ben figurato fra i Cavalieri del Lavoro, e anzi avrebbe contribuito a dar lustro e decoro all’Ordine stesso.
«Nella risposta al discorso che gli indirizzò il Presidente dell’Associazione Tipografico-Libraria in occasione del suo giubileo editoriale, egli disse che sarebbe morto sulla breccia con l’entusiasmo per la sua nobile professione. E tenne la promessa. Lavorò sino all’ultimo, sin che le forze lo sorressero. Tutte le bozze che gli vennero mandate a casa (ed erano molte) la sera del venerdì 14 gennaio corrente, perché le rivedesse, ritornarono in tipografia licenziate la mattina dopo, mentre il povero revisore giaceva sopra un letto di Casa di Salute, dove già da parecchie ore aveva subito l’atto operatorio che doveva portarlo dopo pochi giorni alla tomba.
«Quantunque il povero signor Treves parlasse frequentemente e serenamente con noi della sua prossima fine, tuttavia egli non prevedeva affatto di dover morire così presto, poiché l’ultimo dell’anno ai miei auguri e felicitazioni pel suo 81° compleanno mi rispondeva con un biglietto nel quale mi diceva celiando che sperava di vivere tutto il nuovo anno per potermi dare ancora molte altre amorevoli strapazzate. Il Destino volle diversamente, e troncò repentinamente la vita di questo tenace, infaticabile lavoratore, che merita senza dubbio un posto d’onore in quegli aurei libri che sono Volere è Potere del Lessona e Chi si aiuta Dio l’aiuta di Smiles.
«A nome di tutto il personale tecnico dello Stabilimento, al quale il compianto commendatore volle dare con disposizione testamentaria un’ultima prova del suo affetto, legando alla Società di Mutuo Soccorso interna dello Stabilimento una generosa somma di denaro, mentre altra pur cospicua ne legava all’altra Società di Mutuo Soccorso pei tipografi, l’ultra centenario Pio Istituto Tipografico, che l’aveva eletto a Socio d’Onore, io prego l’egregia signora Susette, la buona signora Maria Mosso, gli abiatici e le cognate di gradire le più vive, le più sincere condoglianze e di credere al nostro costante e inalterato affetto per loro.
«O amato maestro, tu ci hai lasciati per volare là dove è quiete e pace eterna, e dove ti è riserbato il riposo ben meritato dopo tanto e cosi intenso lavoro. Che il tuo spirito eletto aleggi ancora e sempre su di noi, e ci conforti, ci sorregga, ci guidi. Ave!... ».
Il cav. Emilio Alfieri con voce vibrante disse così: «A nome dell’Associazione Tipografico-Libraria Italiana che egli tanto predilesse e tanto amò, ho l’onore e il dolore di portare alla salma di Emilio Treves un estremo commosso saluto.
«La sua dipartita costituisce un lutto irreparabile per la libreria italiana che venerava in lui uno fra i suoi più illustri, geniali e benemeriti rappresentanti.
«Non è mio assunto il parlare di Emilio Treves quale uomo di lettere, quale sagace editore e quale ottimo cittadino, che già la stampa (e gli oratori che mi precedettero) hanno degnamente illustrato le eminenti qualità intellettuali e morali del nostro compianto Collega.
«Ma poiché io parlo a nome della grande Associazione Nazionale degli stampatori, editori e librai, che fu oggetto di particolarissime cure da parte di Emilio Treves, è doveroso che io rammenti le grandi benemerenze dello stesso verso le nostre organizzazioni professionali.
«L’Associazione Tipografico-Libraria Italiana, fondata nel 1869 da un gruppo di volonterosi editori, ebbe sede in Firenze fino al 1875, e in questi suoi faticosi inizi ebbe una vita un poco stentata; cosicché probabilmente questo primo comitato di organizzazione editoriale sarebbe caduto nel vuoto se Emilio Treves non avesse consigliato il trasporto della Sede del gruppo a Milano, tracciando in pari tempo al nuovo Sodalizio tutto un programma di azione e di lavoro.
«Gli editori e librai italiani compresero tosto di aver trovato in Emilio Treves un degno loro Duce, e lo elessero unanimi a Presidente della loro Associazione, carica che egli tenne con gran decoro della libreria italiana per ben 10 anni consecutivi, restaurando con l’opera sua intelligente le sorti del Sodalizio e stabilendone l’organizzazione su saldissime basi.
«Ed è a lui che si deve se per le cure del nostro Istituto si poté formare in Italia un copioso materiale di bibliografia nazionale, tale da sostenere egregiamente il confronto con quello di cui sono dotati i Paesi esteri più progrediti.
«Né questa è la sola benemerenza verso gli studi di cui noi siamo debitori a Emilio Treves.
«Egli – editore – fu un instancabile propugnatore della maggior tutela del diritto d’autore in Italia, ed ebbe gran parte anche nella fondazione della Società Italiana degli Autori.
«Una caratteristica editoriale di Emilio Treves fu la assoluta probità; una probità scrupolosa in difesa degli autori che egli volle tutelati col proporre nuove leggi, col perseguitare i contraffattori del libro e col volere istituito il bollo di controllo sui frontispizi dei libri sempre a garanzia dei legittimi interessi degli autori delle opere dell’ingegno.
«Egli fu tra gli stampatori, gli editori e i librai italiani un Maestro, e l’opera sua e i suoi insegnamenti non saranno perituri, come non sarà peritura nei nostri cuori la sua memoria.
«Addio, caro e grande Collega, a voi porgo il saluto commosso di tutti i Soci, della A.T.L.I. e delle organizzazioni che di essa fanno parte».
Sabatino Lopez, segretario della Società degli autori, si avanzò quindi, improvvisando così:
«Piccolo grande vecchio, piccolo vecchio giovine che ti avvii alla tomba, io ti porto il saluto della Società Italiana degli Autori che ti ebbe Socio, Consigliere, Vice-Presidente.
«Vedi: mezza letteratura è qui accanto alla tua bara, perché tu avesti, vivo, più che metà della letteratura nel pugno tuo breve.
«E quelli che non furono con te, avrebbero voluto esser con te, perché tutti non potevi prender con te; e anche se ti rimproverarono o ti serbarono rancore da vivo, s’inchinano e piegano il capo dinanzi alla tua fossa riconoscendo quello che tu fosti.
«La tua vita per più assai di sessant’anni fu lotta e fu vittoria: sempre hai vinto; perché ti meritasti di vincere, perché i tuoi difetti erano l’ombra delle tue virtù. Sei stato quello che hai voluto essere, e non fosti quello che non volesti e pur potevi: fosti l’Editore, ma non soltanto il libraio, cioè il mercante, non soltanto il tipografo cioè il ricercatore sapiente di tipi o il compositore di caratteri, non soltanto il lanciatore di volumi cioè l’uomo d’affari; fosti il seminatore e l’incitatore, e varie opere della letteratura contemporanea furono, perché tu volesti che fossero, e furon così perché così, colla tua grande conoscenza del pubblico, avevi consigliato agli scrittori che fossero. Potevi essere un uomo di finanza, un uomo politico, un grande giornalista, forse un autor comico con quel tuo perenne sorriso: non volesti esser nulla di tutto questo, e alle vanità opponesti l’ironia, e alle piccole cose lo sprezzo. Sì, è vero quello che diceva or ora chi mi ha preceduto: avresti dovuto essere cavaliere del lavoro, ed altro avresti dovuto essere: ben altro ti toccava che una commenda. Che importa? fosti di più: fosti Emilio Treves, un principe della tua arte.
«Ti ho detto: i più, tra i tuoi scrittori, sono qui accanto a te. Gli altri non son potuti venire: sono al campo. Ma anche essi hanno pensato a te, perché non ti si può veder sparire senza un rimpianto schietto profondo e duraturo, perché tu fosti sorridente e operoso, geniale e leale, e la tua lunga vita fu un magnifico esempio di lavoro luminoso e fecondo.
«Tu fosti tutto, essendo soltanto Emilio Treves – addio, Emilio Treves!...».
Felice Giuliani, addetto alle officine Treves e presidente della Società di M.S. interna dello Stabilimento Treves, lesse questo ultimo affettuoso saluto:
«All’eletto spirito dell’illustre estinto commendatore Emilio Treves, alla di Lui spettabile desolata Famiglia così crudelmente colpita da tanta perdita, porgo a nome della Società Mutua Interna che si pregia del Suo nome glorioso, i dovuti ringraziamenti per quanto fece in nostro favore durante la di Lui vita editoriale, ed anche ora, prima di chiudere il suo ciclo cotanto operoso e fecondo.
«Speriamo e confidiamo che i successori della grandiosa opera lasciata dai Fratelli Treves editori, seguano le loro orme, continuino le loro nobili tradizioni, specialmente considerando e rispettando l’impotenza al lavoro dei loro operai.
«Le lagrime rasciugate e i dolori leniti mediante la di Lui munificenza durante le inevitabili malattie quando più assilla il bisogno saranno un monumento imperituro e degno di Lui, del di Lui nome grande che rimarrà scolpito nel libro d’oro dei Benefattori del nostro Sodalizio».
Dando alla memoria, assolutamente indimenticabile per noi, del nostro amatissimo Maestro lo spazio di tre pagine, abbiamo oltrepassati, lo sappiamo, i limiti che egli stesso – con serena stoicità, parlando dell’umana eventualità, certa nel fatto per quanto incerta nell’ora, aveva, direttorialmente, indicati. Ma non era assolutamente possibile fare diversamente, e per sfogo agli animi nostri, e per dovere, in parte assolto, verso gl’innumerevoli, che Io amavano e vollero onorarlo. Ma a volere dire tutto, riprodurre tutto, non basterebbero più numeri dell’Illustrazione, ciò che urterebbe contro tutti gl’insegnamenti e la precisa volontà di Lui.
Qui chiudiamo dando posto a questi due telegrammi, e l’eccezione non abbisogna di parole:
Il presidente dei ministri, Salandra, così ha telegrafato:
«Legato da antica amicizia al comm. Emilio Treves, del quale ho sempre ammirato la nobile attitudine, che tanto impulso conferì alla coltura in Italia, ho appreso con vero dolore la notizia della sua morte e mando alla sua famiglia le condoglianze più sentite per la grave perdita».
Gabriele d’Annunzio ha diretto alla signora Susette Thompson Treves, vedova di Emilio, questo dispaccio:
«Ho perduto un grande e fedele amico e il mio cuore doloroso non ricorda oggi se non la sua bontà paterna che superava sempre ogni dissentimento. Spero di poter disegnare un giorno la sua figura quale la compresi e l’amai. Vi sono vicino con tutto il mio cuore».
Nell’impossibilità di rispondere alle innumerevoli espressioni di cordoglio pervenute in questi giorni da collaboratori vecchi e nuovi, dai colleghi della stampa, da editori e librai di tutt’Italia, dagli amici, dagli estimatori e dai conoscenti, rivolgiamo a tutti i sensi della nostra commossa gratitudine. E particolarmente ringraziamo i valorosi scrittori che vollero rievocare con vibranti ed affettuose parole la figura e l’opera di Lui che fu fino all’ultima ora l’anima di questo giornale. Raccoglieremo a suo tempo quanto fu scritto intorno ad Emilio Treves, perché dell’universale compianto che suscitò la sua scomparsa rimanga memoria perenne.
Emilio Treves
L’ora tristissima che noi nemmeno sapevamo immaginare incisa sul quadrante della realtà, pur troppo la freccia del destino l’ha segnata!... Emilio Treves, il fondatore e fino all’ultimo istante di sua vita, direttore vigile e luminoso di questa Illustrazione Italiana, che era da oltre quarantadue anni la prediletta fra le sue intellettuali creazioni, è scomparso per sempre dalla vita – lui che, fino a due settimane fa, fino poche ore prima di dovere ricorrere, improvvisamente, alla rapidità della mano chirurgica, si proclamava gaiamente, nell’intimità dell’amicizia «giovine e pieno di vita!...» pur avendo compiuti gli ottantuno anni il 31 del dicembre passato!...
Gli è che alla fastidiosità del vecchio enfisema, alle molestie ricorrenti degli ostinati catarri, agli acciacchi di una vita di lavoro indefesso – inevitabilmente antigienica non ostante le agiatezze di una esistenza compensata giustamente dalla fortuna – egli contrapponeva tutto il vigore di un cervello ampio, possente, meraviglioso – un cervello che agli scienziati di altri tempi sarebbe apparso eccezionale soggetto di indagine e di studio, per trarne sempre nuovi elementi alla conoscenza di quella magnificenza della creazione che è appunto l’umano cervello – in lui indubbiamente dotato di tutti i più rari pregi della perfezione.
La mattina del giorno nefasto – del venerdì 14 gennaio – egli aveva concretato con chi scrive queste linee il piano definitivo di un lavoro editoriale: la sera, rivedendo l’«amico e collega – come egli nel giorno avevagli scritto – aveva mutato di sana pianta tutto il disegno!...
– Ma come?... Non eravamo già così bene intesi questa mattina?...
– Sì, hai ragione; ma, cosa vuoi, io sono ancora giovane!... – E qui una delle sue solite brevi risate gutturali di compiacimento. – Ho il cervello che lavora sempre… Ho mutato, e mi pare che vada molto meglio così!...
In realtà, egli aveva ragione – questa volta, come tante altre; la mobilità del suo spirito, la rapidità di vedere, di criticare e di riconcepire del suo cervello fenomenale, finiva quasi sempre coll’arrivare al punto giusto, all’assetto migliore, e non si poteva a meno di riconoscere la giustezza finale di quei movimenti della sua volontà che, ai superficiali, potevano parere irrequietezza e volubilità.
Era sempre stato così, fino da fanciullo – era l’indomabile, l’incontentabile, non per difetto di energia intellettuale e morale, ma per eccesso.
Era nato a Trieste, nel 1834, da un padre dotto e di bella elevazione spirituale, il rabbino dell’università israelitica, Sabbato Graziadio Treves, vercellese di origini, considerato in Piemonte, come in Trieste, uno dei rabbini più illuminati e liberali del suo tempo. Quando nel 1856 il dottor Treves ritornò per alcune settimane in Piemonte, gli furono fatte dai concittadini accoglienze pubbliche festosissime, registrate dai giornali liberali d’allora e mutatesi in breve in dimostrazioni di compianto per l’improvvisa morte di lui.
Emilio fu portato dalle inclinazioni della mente e dello spirito alla letteratura: esordì sedicenne con un dramma. Ricchezza e miseria, al quale tenne subito dietro un Duca d’Enghien – che a Trieste fu dalla censura proibito: poco dopo – nel 1853 – quando fu pubblicato, la Imperiale regia Gazzetta di Venezia stampò che ci voleva un bel coraggio a scrivere un dramma tanto lungo da obbligare gli spettatori a starsene in teatro fino alle due del mattino; ma che la prefazione messa in fronte al libercolo, rivelava nella spavalderia che inspiravala la risolutezza di un giovine, che, «per qualunque via si fosse messo, sarebbe certamente riuscito».
Dopo sessantatré anni da quella profezia augurale, l’ammirazione dolorosa di quanti oggi in Italia – e sono la maggiore e miglior parte dell’intellettualità italiana – rimpiangono Emilio Treves, riconosce e rileva il pieno successo di una vita, tutta dedicata, con un’agilità insuperabile, al lavoro incessante e fortunato!...
Il Lloyd Triestino aveva impiantata in quei tempi un’azienda tipografica importante, con una sezione letteraria apprezzatissima, sul genere di quella dell’Antonelli di Venezia: la dirigeva il prof. Antonio Racheli, del quale Emilio Treves fu ben presto il segretario solerte. L’edizione dei Classici del Lloyd – un seicento volumi, di autori greci, latini, italiani – passò tutta sotto le mani, per gli occhi e per il cervello di Emilio, che ne fece una revisione non formale, ma consapevole, cosciente. Noi lo abbiamo udito, più volte, benedire quella lunga e penetrante saturazione culturale, per la quale abituò tutto sé stesso alla assiduità infaticabile, e diede alla mente capacissima le basi di quell’impostamento letterario classico, che lo rese poi formidabile – e noi, suoi compagni di lavoro ben lo sappiamo, e lo ricordiamo con intima commozione – in tutte le dispute su questioni di filologia, di gusto, di stile!...
La potenza assimilatrice del suo ingegno, la vivacità del suo temperamento, la prontezza del suo spirito critico non potevano fare di lui un semplice sgobbone ortodosso: la sua era una penna un po’ribelle, e perché tale, la polizia gli persuase non essere più propizia per lui l’aria di Trieste. Andò per qualche tempo a Parigi a farvi – meglio assai di molti altri liberali italiani, accintivisi per necessità, impreparati – il maestro d’italiano, come realmente era e fu sempre. Poi, gli fu concesso di rientrare negl’imperiali e regi stati, e trovò lavoro a Fiume, dove diresse una tipografia, collaborando anche nella bella strenna fiumana «Deh! pensa a me!» da lui sempre ricordata con compiacenza. Da Fiume si trasferì a Udine, ivi fece il precettore, veste nella quale venne anche a Milano, dove uno dei suoi allievi – l’avvocato e più volte assessore Morpurgo – può far fede della valentìa e del fervore di un maestro tanto saturo di dottrina.
Ma Emilio Treves a Trieste, a Fiume aveva gustato il sapore dell’inchiostro da stampa – e chi di quell’inchiostro una volta si è intinto, sempre si intingerà. Alla Gazzetta di Milano, diretta allora da Giuseppe Rovani, occorreva un provetto, rapido traduttore, ed Emilio Treves, che vi aveva la perfetta capacità e le molteplici attitudini, fu il prescelto, e le traduzioni gli lasciarono anche il tempo per alcuni articoli. In breve fu uno dei giornalisti più vivaci e più noti nei cenacoli milanesi di quel tempo.
Serpeggiavano in quei giorni le illusioni di una coscienza italiana ammessa e riconosciuta dall’Austria; uomini come Stefano Jacini, Cesare Cantù ed altri ancora, non escludevano la possibilità di concessioni aiutatrici di un risveglio nazionale, e si volle creare un giornale che interpretasse la momentanea tendenza. Il titolo era promettente – la Gazzetta d’Italia. Il numero di saggio fu preparato, con l’articolo di fondo, l’articolo programma, scritto da Emilio Treves: il numero di saggio, tirato in una sola copia, ufficialmente, in pochissime in realtà, fu mandato a Vienna, alla superiore censura, ad assaggiare. L’articolo di Emilio ottenne questo successo: sequestro del numero di saggio
soppressione del nuovo giornale, prima ancora che ne fosse cominciata la pubblicazione!... Vi furono delle polemiche: Emilio Treves e Leone Fortis, già a Trieste rivali sul Teatro, rivali a Milano nel giornalismo, si misurarono con le sciabole in mano, stringendosi poi le destre per un’amicizia intellettuale, fraterna non spezzata più che dalla morte.
Ma per gl’italiani avvicinavasi l’ora di battersi ben altrimenti che fra loro: suonò la riscossa del l859, ed Emilio Treves fu uno di quei Cacciatori degli Appennini che, sullo Stelvio, avrebbero emulato il valore di quelli delle Alpi, se l’armistizio di Villafranca non avesse arrestata d’un tratto la gloriosa rivendicazione nazionale.
Il volontario rientrò a Milano, libera; riprese il suo lavoro alla Gazzetta di Milano, ed anche nell’Uomo di Pietra, la cui collezione e le cui strenne annuali attestano della briosa vivacità e dell’acutezza di osservazioni di colui, che nel 1861 doveva provare finalmente la gioia, lungamente meditata e sospirata, di impiantare, in via Durini, una piccola azienda potendo dirsi finalmente «editore»!...
Quante e quali cure per quel modesto, romantico Museo di famiglia, che fu la crisalide di ben altre pubblicazioni periodiche illustrate, in elaborazione sin d’allora nel fervido cervello di Emilio, e culminate poi, dodici anni più tardi, nell’Illustrazione Italiana. E quanto lavoro, quale rapido ascensionale cammino in quei dodici anni, e più dopo!... L’Annuario scientifico, la Biblioteca Amena – e più completo, più vario, più ricco del Museo di famiglia, l’Universo illustrato; poi l’assettamento dell’azienda tipografica-editoriale in via Solferino 11, rilevata dal profugo ungherese Helfy; poi l’assunzione nel 1872 del fratello Giuseppe a socio ed organizzatore finanziario della nuova maggiore impresa – diventata dei Fratelli Treves, – integrata intellettualmente dal concorso di quell’egregia donna che vide tutte le fortune, partecipò a tutte le gioie, poi ai dolori dell’ultimo dodicennio – Virginia Tedeschi, Cordelia – i cui volumi pensati e sentiti hanno modellato e modellano ancor oggi tante anime giovanili!...
E vi era anche stato, fra le creazioni di Emilio Treves, un grande giornale quotidiano – grande per quei tempi – e grande sarebbe ancora oggi – il Corriere di Milano – giornale liberale costituzionale, della gloriosa scuola cavouriana, durato dal 1869 al 1874, e nel quale Emilio Treves profuse tutta la bellezza del suo ingegno, tutta la sua vivacità polemica, tutto il suo acume di pensatore politico e di talento critico letterario ed artistico, formando alla propria scuola quegli che allora era suo redattore capo – Eugenio Torelli Viollier, arrivato da Napoli a Milano in cerca di fortuna, e passato rapidamente dall’azienda del Sonzogno a quella tanto promettente dei Treves.
Il Corriere di Milano fu il progenitore genuino del Corriere della Sera, sorto nel turbinoso passaggio del costituzionalismo italiano dal tramonto della Destra all’aurora della promettente Sinistra. Emilio Treves, nella praticità del suo spirito, idealista insieme e positivo, sentì che non valeva più la pena di prodigare ingegno e fatiche nelle polemiche giornalistiche, insufficienti ad impedire ciò che era inevitabile; e dedicò da allora tutto se stesso ad accrescere la grande azienda editoriale, non solo, ma a far sorgere un grande giornale illustrato settimanale, degno veramente di tale nome, e della Patria italiana resuscitata. Nell’impresa difficile avevano fallito, ripetutamente, nel 1847-48 e nel 1860-61 il Pomba ed anche nel 1855 il Perrin; all’impresa aveva rinunziato il Cima con la sua Illustrazione Italiana dai disegni tirati in litografia; poi erasi dato per vinto il Sonzogno, che pure per parecchi anni aveva pubblicata una pregevole, grande Illustrazione Universale; non erano riusciti gli eredi Botta di Firenze, che col Nuovo Giornale Illustrato Universale avevano insistito per tre anni, nell’allora capitale d’Italia, in un lodevole esperimento.
Nel dicembre del 1873 Emilio e Giuseppe Treves fecero uscire dalle loro officine questa grande Rivista settimanale illustrata, che, da quarantatre anni, tiene degnamente il primo incontrastato posto, nel paese nostro, tra tutte le pubblicazioni del genere; e non solo gareggia, ma è arrivata agli scambi da pari a pari, delle proprie produzioni artistiche, grafiche coi grandi giornali confratelli di Parigi e di Londra.
Che cosa sia I’Illustrazione Italiana non tocca a noi dire. Ma la sua collezione è il documento ininterrotto e più immediatamente tangibile di quella che fu la costante, tenace, incrollabile fede ed operosità di Emilio Treves, sia come giornalista, sia come editore – giacché nelle pagine, in tutte le pagine dell’Illustrazione – in quelle di testo, come in quelle di avvisi, sono impressi settimana per settimana – si tratti degli articoli briosi firmati et o degl’insuperati ed insuperabili Corrieri firmati Cicco e Cola; si tratti delle Noterelle o delle riviste bibliografiche; si tratti degli avvisi in copertina – sono segnati tutti i movimenti di quello scoppiettante spirito onniveggente, che curava fino all’inquietudine angosciosa le bozze dell’articolo vibrantemente scritto e pregustato, e gli annunzi delle novità librarie, passati sotto una revisione minuziosa, nella quale riaffermavasi il temperamento tenace di colui che aveva mondati da giovine i seicento volumi dei classici del Lloyd Triestino!...
Perché Emilio Treves non era l’editore che pubblica i volumi avendoglieli qualche consigliere salariato o qualche amico od amica, per fiducia o per simpatia, suggeriti e fatti accogliere: no. Egli pubblicava dopo avere letto, dopo avere criticato, dopo avere discusso con gli autori, dopo avere consigliati mutamenti, perfezionamenti, soppressioni, suggerite dalla squisita sensibilità del suo cervello, dalla sua cultura, dal suo gusto, dall’acutezza del suo spirito, sempre sicuro di vincere le riluttanze degli scrittori, fossero pur essi i più apprezzabili, i più cari al pubblico, i più saldamente sicuri della propria fama e più inorgogliti dal successo.
Era così che gli autori diventavano poi suoi amici; era così che il Catalogo della sua Casa diventava una specie di Albo d’oro della letteratura italiana contemporanea; era così che l’ammissione in quell’Albo aveva valore come di un lascia-passare ambitissimo e sicuro alla via del successo; ed il franco, arguto, pronto, inoppugnabile controllo dell’editore-maestro era come il suggello di una dignità letteraria, tra gli autori invidiata, dal pubblico riconosciuta.
Non mette conto di correre dietro alle leggende che pretendono parlare di un editore avido e di poveri autori spennacchiati. Il catalogo degli autori di Emilio Treves si può dire la rubrica dell’amicizia – gli scomparsi prima di lui ebbero tutti la loro memoria infiorata e celebrata dalla sua devozione, i sopravvissutigli – e sono i nomi più belli della letteratura nazionale – hanno dato alla sua bara un plebiscito memorabile di riconoscenza affettuosa e di intimo attaccamento.
Certamente, ogni volume ideato ed accolto per la stampa mette capo, inevitabilmente, al fatto materiale della vendita, cioè, al momento industriale – senza di che non vi sarebbe l’industria libraria; ma chi ha vissuto – e ve ne sono ancora parecchi – chi ha vissuto i quindici, i venti, i trenta anni, e più, in contatto con Emilio Treves, può far fede del costante idealismo – idealismo di uomo d’ingegno, di uomo di cuore, idealismo sempre poi di italiano – che lumeggiò l’opera sua di editore, consapevole, cosciente, idealista sì, ma, naturalmente, pratico, volendo egli sempre che all’opera arridesse il successo – agli autori pei primi necessitando non meno della così detta «gloria» il risultato tangibile della più larga divulgazione.
E fu Emilio Treves, benemerito presidente e rinnovatore dell’Associazione Nazionale Tipografica Libraria ed operoso stimolatore della Società degli Autori – fu Emilio Treves il più tenace a propugnare e volere leggi e norme che proteggessero solidamente la proprietà letteraria, assicurassero gli autori contro le edizioni frodolente, riconoscessero i diritti immediati e postumi delle opere dell’ingegno.
Autore, editore, libraio egli fu anche tecnicamente tipografo: perché tutto ciò che connettevasi alla più perfetta produzione del libro sempre vivamente lo interessò; e l’amore e la stima grande che egli seppe meritarsi dalla maestranza delle sue officine – oltrecché dal profondo ed umanissimo sentimento di giustizia che era nell’animo suo e dalla democratica facilità e famigliarità del suo contatto personale – proveniva appunto dalla coscienza formatasi negli operai – che in realtà sono per molte cose i migliori giudici nostri – che l’editore era anche tecnicamente un maestro, scrutatore di tipi, vagliatore di caratteri e di ornati, valutatore di spaziature, di intercalazioni; capace di formare ad un compositore il gusto, come era capace di far mutare ad un autore, anche dei più applauditi, un periodo o magari un capitolo.
Ma tutto ciò egli faceva con gaiezza, con spirito, con una aperta vivacità che nulla aveva del petulante; con un’allegria comunicativa che penetrava l’animo di chi, a tutta prima, pensava di dovere lottare con lui, e poi, appena iniziata la contestazione, la controversia, presto arrendevasi alla immancabile risata che salutava la concordia.
E se talora determinavasi, ma ben raramente, l’urto – Emilio Treves, passato il primo momento, rimettevasi alle ragioni buone che fossergli state opposte; non aveva titubanza a ricredersi; non tollerava che rimanessero dubbi sulla sua franchezza, sulla sua lealtà; e nell’ammissione di quanto eragli sembrato da prima inaccettabile metteva tutta la festosità di un’anima profondamente buona, la cui gentilezza, veramente squisita, era fisiologicamente additata da una mano bellissima, modellata con grazia femminea, ed inspiratrice di delicate riflessioni al psicologo.
Né tocca a noi qui dire della simpatica piacevolezza della sua vita intima, così festeggiata pochi anni sono, quando, per le nozze d’oro con la sua degnissima compagna, signora Susette Thompson, e per le nozze recenti della cara nipote Mimì Mosso col nipote Mario Ferraguti, i numerosi amici, e specie gl’intimi, poterono goderlo in tutta la deliziosità di un temperamento fortunato, che con la moglie, con l’amatissima figlia Maria, coi nipoti, con gli amici sfoggiava la prodigalità dell’allegria più garbata e dilettosa, rapidamente attraversata dai corruscamenti provocati da qualche grossa svista del partner nell’immancabile partita a dòmino, a bridge od a bèzigue – maestro com’era, non per vizioso stimolo, ma per necessità di tenere sempre in esercizio l’ingegno e alerte il temperamento, anche attorno al tappeto verde, dove insegnava, disputava, interveniva tal quale come si trattasse di disciplinare qualche edizione o persuadere qualche difficile autore.
Di codesto singolarissimo cervello – che mai si prese, crediamo, più di cinque ore di riposo per notte – molto che siamo venuti qui rievocando, tra la tenerezza delle ricordanze e la mestizia del cuore, sarà meravigliosamente provato il giorno in cui i riguardi di contemporaneità superati permetteranno di pubblicare l’epistolario di Emilio Treves coi suoi autori e coi suoi collaboratori. Si vedrà allora quanto e come fosse veramente degno del nome di letterato questo editore, che se avesse scritte e pubblicate cose proprie sarebbe arrivato ugualmente alla gran fama cui giunse pubblicando consapevolmente cose altrui!... Quell’epistolario era, a volta a volta, l’espressione di tutte le più acuite qualità del suo ingegno, del suo prontissimo spirito, della sua sensibilità multiforme, della sua reale bontà, e di quella dignitosa coscienza di sé, che non lo abbandonò mai, nemmeno nei momenti in cui, anche nei tardi anni, lo spensierato del Ricchezza e Miseria o dell’Uomo di Pietra, faceva capolino, col suo naturale immutabile, nell’editore fortunato e riverito.
E mostrava talora, non la collera – questa mai – e mai poi il lungo, ostinato rancore – ma l’ira, talora… L’ira, per un errore di stampa, per una negligenza che un poco di elementare attenzione avrebbe potuto evitare: per un nonnulla che menomasse o la bellezza di un’edizione, o il pregio di un articolo, o la serietà di una notizia pubblicata nell’Illustrazione, la quale – diceva sempre egli – essendo settimanale, aveva, ha, più di ogni altro giornale, il dovere di andare monda da qualsiasi di quei tanti errori che ingombrano le pagine degli affrettati giornali quotidiani.
Ma c’è opera tipografica che possa vantare una tale incolumità?... Per ciò egli era, ancora ad ottantadue anni, ancora sul letto, che ne vide la morte, l’infaticabile revisore di stampe, – con la lena, con l’ardore, con la vigilanza indefessa dell’occhio linceo, aiutato ora dall’occhialetto soccorritore – quale erasi rivelato al Racheli nei tempi dell’azienda libraria del Lloyd triestino.
Né la solerzia sua industriale, la sua genialità rinnovatrice scemarono con gli anni: nello scatenarsi della gran guerra e nel delinearsi di quella italiana – pur essendo, fin che le ragioni del diritto nazionale poterono consentirla possibile, fautore della neutralità, e dopo, sincero auguratore della vittoria – ideò e guidò tutte le nuove serie editoriali dedicate alla guerra, e curò personalmente, fino al Quaderno che sta per uscire, i Diarii della guerra, pei quali appena un mese fa, rassegnandone a mano amica e sicura la compilazione, dettava pel «caro amico e collega» un programma fondamentale, che rispecchia tutta la intatta lucidezza del suo cervello organizzatore, tutta la preveggenza dell’editore consapevole dei desiderii, dei gusti, dei bisogni intellettuali del suo larghissiino. pubblico.
Poiché quest’uomo che, agli osservatori superficiali, poté anche parere mobile, volubile, scettico, egoista, contradditorio, – aveva in tutto l’essere suo la tenacia della logicità, della coerenza, della fermezza; in politica fu sempre un liberale moderato; in letteratura un classicista; in filosofia uno spiritualista superiore ad ogni pregiudizio confessionale; in arte un entusiasta del bello idealizzato; nei movimenti rapidissimi dello spirito anche un ribelle stimolato da una irriducibile gaminerie; nella realtà della vita un epicureo sperimentalista, che dalle sensazioni attinte alla non dissimulata gioia di vivere, trasse sempre i più nobili eccitamenti a promuovere il bene ed a farlo. Non era, no, un sentimentale precipitevole; il suo ampio ingegno rendevalo riflessivo, ed il suo illuminato scetticismo rendevalo schivo di ogni romore intorno al bene che faceva; rifuggiva dalla pompa esteriore, dal lusso, ancorché consentitogli dalla meritata agiatezza; e verso se stesso, verso quella sua piccola, saltellante, rotonda, caratteristica figura – per la quale rassomigliò ad un’altra luminosa figura avente con lui, e per l’onniscienza, e per la memoria pronta e vigorosa, e per la suscettività dell’umorismo scoppiettante molti punti di contatto – Ruggero Bonghi – per la sua persona ebbe sempre così pochi riguardi, che toccava agl’intimi, spesso, rimproverarlo come un fanciullo – e raramente dava retta, ché se avesse obbedito, chi sa quanti anni ancora avrebbe vissuto fra noi!...
In realtà, noi eravamo assuefatti all’idea che non lo avremmo perduto mai; e sebbene egli parlasse sovente, con filosofica serenità, della morte e del «di là» nel quale, come ogni spirito superiore, credeva, e fosse all’idea della morte così educato, da andare a scegliersi egli stesso, poche settimane sono, l’area dove nel Cimitero Monumentale la sua salma ora riposa – a noi pareva che questo nostro signor Emilio, che era il sole quasi senza macchie di un grande sistema planetario dell’intellettualità letteraria italiana, mai si sarebbe spento; e noi avremmo potuto continuare anni ed anni a dare all’opera nostra, alla nostra coscienza, ai nostri spiriti quel senso di sicurezza costante, assoluta, decisiva, che si riassumeva nella formula: «adesso sentiremo il signor Emilio!...».
L’uomo la cui mente capace tutto sapeva, tutto osservava, tutto ricordava; la cui sensibilità per ogni minimo evento vibrava; il cui spirito ad ogni istante era prodigo di sprazzi luminosi, ora non è più fra noi – non è più qui dove per cinquantacinque anni fu a tre generazioni maestro suggestivo di un’operosità, risultante contemporaneamente da una rara genialità e da una instancabile fatica. Noi, che l’abbiamo visto agonizzare, possiamo ben dire che anche quando il corpo cominciava a sentire gli effetti del disfacimento irrevocabile, il cervello, il grande cervello maraviglioso del Maestro, continuava a lavorare; perché quel cervello per almeno settanta anni – anche quando pareva che Emilio Treves si divertisse, si ricreasse, scherzasse, – non fece mai altro che pensare per lavorare e lavorare perché aveva pensato.
Dio, nel quale egli così altamente credeva, lo aveva animato di quel soffio creatore e segnato con quelle impronte di sovrana energia onde sono formati i fondatori – e per le virtù iniziali e fondamentali sue l’opera da lui fondata durerà, vigilata da tutti gl’insegnamenti del grande amico e Maestro, legge e disciplina alla nostra immutabile devozione!...
I FUNERALI.
Le onoranze funebri tributate nel pomeriggio di lunedì scorso, 31 gennaio, ad Emilio Treves, riuscirono una attestazione veramente solenne del grande, vivo, generale compianto destato in Milano e in tutta Italia dalla sua morte.
La salma, dalla casa di salute, dove egli, alla mezzanotte del 30 gennaio – dopo quindici giorni di degenza – spirò, era stata trasportata al palazzo di via Brera 21 – dove egli abitava da quasi quaranta anni; e di qui alle l5 mosse l’imponente corteo, aperto da carri e vetture carichi di ben quarantatre corone inviate da amici devoti, da sodalizi, da rappresentanze. Seguivano le rappresentanze, del Pio Istituto Tipografico, di cui Emilio Treves era antichissimo benemerito socio; della Società Reduci dalle patrie battaglie e della Società Garibaldini, essendo egli stato volontario garibaldino nel 1859 nei Cacciatori degli Appennini; poi la densa massa degli appartenenti alla società interna di mutuo soccorso fra il personale dello stabilimento Fratelli Treves, preceduta dalla bandiera sociale, e da una magnifica corona portata a mano.
Attorno al carro, a reggere i cordoni stavano, a destra, il vice-prefetto comm. Frigerio, in espressa rappresentanza del ministro Ferdinando Martini, il commissario civile, senatore Cassis, il direttore del Corriere della Sera, senatore Albertini, l’editore comm. Bemporad, ed il cav. Enrico Brunetti, direttore della tipografia Treves, compagno di lavoro dell’Emilio da quarantotto anni; – a sinistra il senatore Della Torre, consigliere delegato della Società Anonima Fratelli Treves, Arrigo Boito, amico intimo di Emilio Treves da quasi sessant’anni, Ugo Ojetti, ed il cav. Emilio Alfieri, vice-presidente dell’Associazione Tipografico-Libraria Italiana.
Immediatamente dopo il carro seguivano la figlia, signora Maria Treves vedova Mosso, la figlia di questa signora Mimì Mosso Ferraguti, il nipote Guido, condirettore con Emilio dell’Illustrazione, i nipoti Ferraguti, Sinigaglia, la cognata, signora Virginia Tedeschi Treves, ed i più intimi collaboratori di Emilio Treves; poi tutta una folla innumerevole di senatori, deputati, letterati, pubblicisti, artisti, editori, personalità, amici, signore e signori, onde è impossibile una elencazione, che darebbe luogo a rincrescevoli omissioni.
Il corteo, passando in mezzo a due fitte ali di cittadini, sfilò da via Brera e via Solferino per via Palermo passando davanti a quello stabilimento Treves dove Emilio fu per quasi mezzo secolo esempio a tutti di instancabile, sorprendente operosità; poi per corso Garibaldi e via Volta al Cimitero Monumentale, dove, davanti alla gradinata del Famedio, fra le rappresentanze e la eletta folla dispostasi ad anfiteatro, la cara salma ebbe gli estremi saluti.
Parlò primo il comm. Frigerio, vice-prefetto, esprimendo il cordoglio del suo mandante, il ministro delle Colonie, Ferdinando Martini, legato a Emilio Treves da antica amicizia, da rapporti frequenti come autore, come insigne collaboratore dell’Illustrazione Italiana.
Prese quindi la parola il senatore Luigi Della Torre, consigliere delegato della Società Anonima Fratelli Treves, leggendo con accento vivamente commosso, così:
«Depose il lavoro e col lavoro la vita.
«L’uomo che giunto a Milano solo, senza aiuti, senza appoggi aveva saputo compiere la grande opera, ci ha lasciati d’un tratto, mentre pareva che pur nella tarda vecchiezza rifluissero in lui le inesauste linfe della vita, del valore.
«Quale grande opera di bene egli aveva col lungo lavoro iniziata, eretta, compita! Dal giornalismo politico egli si ritraeva per dedicarsi a quel Museo di famiglia che fu la prima semente della Illustrazione italiana, della Illustrazione popolare, dei numerosi giornali della moda e della famiglia che sono nelle nostre case a portarvi la nota dell’avvenimento che passa, il consiglio dell’eleganza, il disegno che l’arte vivifica, la storia degli eventi che ci hanno preceduti.
«E tutto il fiorire della nostra letteratura; dai primi romantici ai novellieri pervasi di un raffinato umorismo, dall’immaginosa poesia del nostro grande Poeta vivente, alle frementi passioni di umanità di Ada Negri; dalla storia riccamente illustrata, agli annuari scientifici; dalle pubblicazioni popolari di scienza alle più raffinate dilettazioni delle lettere, è tutto un mondo dove i migliori nomi della nostra letteratura si seguono, dove accanto ai maggiori si affacciano timidi i novizi, tutti da lui confortati col consiglio dettato da un gusto squisito, da una percezione sicura, meravigliosa di quanto potea rispondere alle necessità di gusto e di cultura del nostro popolo.
«E quando, sono ormai dodici anni, io ebbi l’onore di essere chiamato a partecipare a quella impresa nel nome e per mandato della quale io devo oggi parlarvi; quando noi ammiratori dell’opera meravigliosa di Emilio Treves ci avvicinammo a Lui colla devozione ed il rispetto che la grande opera ci inspirava, noi sentimmo di partecipare ad un’azione di coltura e di progresso che ci fece fieri ed orgogliosi di potere con Lui in modesta misura collaborare. Ritornano al nostro pensiero le brillanti, acute sue relazioni, mirabili di osservazioni limpide profonde racchiuse e vestite in una forma meravigliosa di plastica semplicità, di squisito sapore letterario, cosicché sempre ci dolevamo che il godimento che a noi profondeva fosse da troppo pochi gustato.
«E questa impresa, alla quale, il giorno della scomparsa dell’amato fratello e collaboratore, Egli si era dedicato con rinnovato, giovanile entusiasmo, non deve, non può perire. Noi sentiamo che è dover nostro di portarne innanzi la gloriosa insegna; noi sentiamo che i suoi precetti, lo spirito alacre ed instancato di Emilio Treves pervaderà quanti potranno esser chiamati a seguirne le mirabili tracce; noi sentiamo che quella intelligenza aperta ad ogni nuova corrente di pensiero, riguardosa di ogni delicato sentimento, pronta ad incitare le nuove forze del pensiero e delle lettere, dovrà informare l’azione nell’avvenire. E nell’atto in cui con tutto il nostro dolore, con tutte le nostre lacrime ci separiamo da Lui e come un vuoto senza termine invade le anime nostre, la solenne promessa che qui facciamo ci sembra l’unica degna del suo grande spirito che sorrideva della morte, come sorrideva della vita, ma un’intima fede rendeva strumento di coltura, di civiltà, di progresso.
«Il fiore che qui deponiamo dica a voi tutti il lutto del nostro cuore, che è il lutto delle nostre lettere».
Il cav. Enrico Brunetti, direttore della tipografia Treves e testimone quotidiano dell’opera di Emilio dal maggio del 1868, lesse, con le lacrime negli occhi e nella voce, questo suo sincero discorso:
«Poche parole io dirò davanti a questa bara, ma esse mi saranno dettate dal più sincero attaccamento all’uomo preclaro del quale noi tutti oggi piangiamo la perdita.
«Quarantotto anni di appartenenza alla Casa, per la più gran parte passati in continuo, giornaliero contatto con lui, non potevano non suscitare in me la più grande ammirazione pel suo alto intelletto e per le sue elette qualità. Egli era per noi un vero maestro. Ogni osservazione ch’egli ci facesse racchiudeva un insegnamento e i suoi consigli ci erano preziosi anche tecnicamente. Le difficoltà d’ogni sorta che ci si paravano davanti nel corso dei lavori, egli le sapeva sempre superare facilmente e genialmente. La sua vasta azienda, ch’egli seppe portare all’apogeo della prosperità, era da lui guidata con mano ferma e sicura, e ad essa dedicava tutta la sua grande energia.
«Tutto il personale dello Stabilimento lo stimava e lo amava senza riserva, e ne aveva ben ragione. Non capitava sventura a qualcuno del suo personale ch’egli, saputolo, non pensasse d’alleviare; non impotente al lavoro ch’egli non sussidiasse sino alla fine. In ultimo, a tutti i richiamati alle armi, accordava sussidi (e continueranno ancora) che per la quasi totalità raggiungono sino il 50 per cento del loro stipendio, punto curandosi di caricare con ciò il bilancio della Società d’un rilevante gravame.
«Nelle non frequenti divergenze e competizioni riguardanti l’interpretazione delle tariffe concordate della mano d’opera tra la Casa e gli operai, questi ultimi molte volte preferirono trattare fiduciosi direttamente con lui, perché lo sapevano buono, giusto ed equanime, ed egli rispondeva a tale fiducia dando quasi sempre ragione al più debole.
«Per avere un’idea della sua equanimità, narrerò brevemente un fatterello accaduto alcune settimane prima che la Morte ce lo rapisse. Discutendo con lui circa il prezzo domandato da un tipografo al quale si voleva affidare un lavoro, ed avendogli io fatto rilevare che tale prezzo era esagerato, egli, dopo aver discusso un poco, concluse:«Ebbene, fa tu; ma mi raccomando, non tirare troppo la corda, non strozzarlo!».
«Il compianto signor Treves era un lavoratore infaticabile, fenomenale. Egli trovava tempo a tutto, tutto voleva vedere, tutto controllare di quanto si produceva nel suo grandioso Stabilimento; e noi si restava meravigliati del come potesse giungere a tanto.
«Non si comprende come il Governo non abbia mai pensato di insignire un cosi forte lavoratore dell’Ordine al Merito del Lavoro. È bensì vero ch’egli, vedendo eletti Cavalieri del Lavoro molti che erano già Commendatori, Gran Croci, Gran Cordoni, in uno dei suoi brillanti Corrieri settimanali dell’Illustrazione Italiana scrisse che gli sembravano altrettanti generali promossi caporali. Ma tant’è, egli avrebbe ben figurato fra i Cavalieri del Lavoro, e anzi avrebbe contribuito a dar lustro e decoro all’Ordine stesso.
«Nella risposta al discorso che gli indirizzò il Presidente dell’Associazione Tipografico-Libraria in occasione del suo giubileo editoriale, egli disse che sarebbe morto sulla breccia con l’entusiasmo per la sua nobile professione. E tenne la promessa. Lavorò sino all’ultimo, sin che le forze lo sorressero. Tutte le bozze che gli vennero mandate a casa (ed erano molte) la sera del venerdì 14 gennaio corrente, perché le rivedesse, ritornarono in tipografia licenziate la mattina dopo, mentre il povero revisore giaceva sopra un letto di Casa di Salute, dove già da parecchie ore aveva subito l’atto operatorio che doveva portarlo dopo pochi giorni alla tomba.
«Quantunque il povero signor Treves parlasse frequentemente e serenamente con noi della sua prossima fine, tuttavia egli non prevedeva affatto di dover morire così presto, poiché l’ultimo dell’anno ai miei auguri e felicitazioni pel suo 81° compleanno mi rispondeva con un biglietto nel quale mi diceva celiando che sperava di vivere tutto il nuovo anno per potermi dare ancora molte altre amorevoli strapazzate. Il Destino volle diversamente, e troncò repentinamente la vita di questo tenace, infaticabile lavoratore, che merita senza dubbio un posto d’onore in quegli aurei libri che sono Volere è Potere del Lessona e Chi si aiuta Dio l’aiuta di Smiles.
«A nome di tutto il personale tecnico dello Stabilimento, al quale il compianto commendatore volle dare con disposizione testamentaria un’ultima prova del suo affetto, legando alla Società di Mutuo Soccorso interna dello Stabilimento una generosa somma di denaro, mentre altra pur cospicua ne legava all’altra Società di Mutuo Soccorso pei tipografi, l’ultra centenario Pio Istituto Tipografico, che l’aveva eletto a Socio d’Onore, io prego l’egregia signora Susette, la buona signora Maria Mosso, gli abiatici e le cognate di gradire le più vive, le più sincere condoglianze e di credere al nostro costante e inalterato affetto per loro.
«O amato maestro, tu ci hai lasciati per volare là dove è quiete e pace eterna, e dove ti è riserbato il riposo ben meritato dopo tanto e cosi intenso lavoro. Che il tuo spirito eletto aleggi ancora e sempre su di noi, e ci conforti, ci sorregga, ci guidi. Ave!... ».
Il cav. Emilio Alfieri con voce vibrante disse così: «A nome dell’Associazione Tipografico-Libraria Italiana che egli tanto predilesse e tanto amò, ho l’onore e il dolore di portare alla salma di Emilio Treves un estremo commosso saluto.
«La sua dipartita costituisce un lutto irreparabile per la libreria italiana che venerava in lui uno fra i suoi più illustri, geniali e benemeriti rappresentanti.
«Non è mio assunto il parlare di Emilio Treves quale uomo di lettere, quale sagace editore e quale ottimo cittadino, che già la stampa (e gli oratori che mi precedettero) hanno degnamente illustrato le eminenti qualità intellettuali e morali del nostro compianto Collega.
«Ma poiché io parlo a nome della grande Associazione Nazionale degli stampatori, editori e librai, che fu oggetto di particolarissime cure da parte di Emilio Treves, è doveroso che io rammenti le grandi benemerenze dello stesso verso le nostre organizzazioni professionali.
«L’Associazione Tipografico-Libraria Italiana, fondata nel 1869 da un gruppo di volonterosi editori, ebbe sede in Firenze fino al 1875, e in questi suoi faticosi inizi ebbe una vita un poco stentata; cosicché probabilmente questo primo comitato di organizzazione editoriale sarebbe caduto nel vuoto se Emilio Treves non avesse consigliato il trasporto della Sede del gruppo a Milano, tracciando in pari tempo al nuovo Sodalizio tutto un programma di azione e di lavoro.
«Gli editori e librai italiani compresero tosto di aver trovato in Emilio Treves un degno loro Duce, e lo elessero unanimi a Presidente della loro Associazione, carica che egli tenne con gran decoro della libreria italiana per ben 10 anni consecutivi, restaurando con l’opera sua intelligente le sorti del Sodalizio e stabilendone l’organizzazione su saldissime basi.
«Ed è a lui che si deve se per le cure del nostro Istituto si poté formare in Italia un copioso materiale di bibliografia nazionale, tale da sostenere egregiamente il confronto con quello di cui sono dotati i Paesi esteri più progrediti.
«Né questa è la sola benemerenza verso gli studi di cui noi siamo debitori a Emilio Treves.
«Egli – editore – fu un instancabile propugnatore della maggior tutela del diritto d’autore in Italia, ed ebbe gran parte anche nella fondazione della Società Italiana degli Autori.
«Una caratteristica editoriale di Emilio Treves fu la assoluta probità; una probità scrupolosa in difesa degli autori che egli volle tutelati col proporre nuove leggi, col perseguitare i contraffattori del libro e col volere istituito il bollo di controllo sui frontispizi dei libri sempre a garanzia dei legittimi interessi degli autori delle opere dell’ingegno.
«Egli fu tra gli stampatori, gli editori e i librai italiani un Maestro, e l’opera sua e i suoi insegnamenti non saranno perituri, come non sarà peritura nei nostri cuori la sua memoria.
«Addio, caro e grande Collega, a voi porgo il saluto commosso di tutti i Soci, della A.T.L.I. e delle organizzazioni che di essa fanno parte».
Sabatino Lopez, segretario della Società degli autori, si avanzò quindi, improvvisando così:
«Piccolo grande vecchio, piccolo vecchio giovine che ti avvii alla tomba, io ti porto il saluto della Società Italiana degli Autori che ti ebbe Socio, Consigliere, Vice-Presidente.
«Vedi: mezza letteratura è qui accanto alla tua bara, perché tu avesti, vivo, più che metà della letteratura nel pugno tuo breve.
«E quelli che non furono con te, avrebbero voluto esser con te, perché tutti non potevi prender con te; e anche se ti rimproverarono o ti serbarono rancore da vivo, s’inchinano e piegano il capo dinanzi alla tua fossa riconoscendo quello che tu fosti.
«La tua vita per più assai di sessant’anni fu lotta e fu vittoria: sempre hai vinto; perché ti meritasti di vincere, perché i tuoi difetti erano l’ombra delle tue virtù. Sei stato quello che hai voluto essere, e non fosti quello che non volesti e pur potevi: fosti l’Editore, ma non soltanto il libraio, cioè il mercante, non soltanto il tipografo cioè il ricercatore sapiente di tipi o il compositore di caratteri, non soltanto il lanciatore di volumi cioè l’uomo d’affari; fosti il seminatore e l’incitatore, e varie opere della letteratura contemporanea furono, perché tu volesti che fossero, e furon così perché così, colla tua grande conoscenza del pubblico, avevi consigliato agli scrittori che fossero. Potevi essere un uomo di finanza, un uomo politico, un grande giornalista, forse un autor comico con quel tuo perenne sorriso: non volesti esser nulla di tutto questo, e alle vanità opponesti l’ironia, e alle piccole cose lo sprezzo. Sì, è vero quello che diceva or ora chi mi ha preceduto: avresti dovuto essere cavaliere del lavoro, ed altro avresti dovuto essere: ben altro ti toccava che una commenda. Che importa? fosti di più: fosti Emilio Treves, un principe della tua arte.
«Ti ho detto: i più, tra i tuoi scrittori, sono qui accanto a te. Gli altri non son potuti venire: sono al campo. Ma anche essi hanno pensato a te, perché non ti si può veder sparire senza un rimpianto schietto profondo e duraturo, perché tu fosti sorridente e operoso, geniale e leale, e la tua lunga vita fu un magnifico esempio di lavoro luminoso e fecondo.
«Tu fosti tutto, essendo soltanto Emilio Treves – addio, Emilio Treves!...».
Felice Giuliani, addetto alle officine Treves e presidente della Società di M.S. interna dello Stabilimento Treves, lesse questo ultimo affettuoso saluto:
«All’eletto spirito dell’illustre estinto commendatore Emilio Treves, alla di Lui spettabile desolata Famiglia così crudelmente colpita da tanta perdita, porgo a nome della Società Mutua Interna che si pregia del Suo nome glorioso, i dovuti ringraziamenti per quanto fece in nostro favore durante la di Lui vita editoriale, ed anche ora, prima di chiudere il suo ciclo cotanto operoso e fecondo.
«Speriamo e confidiamo che i successori della grandiosa opera lasciata dai Fratelli Treves editori, seguano le loro orme, continuino le loro nobili tradizioni, specialmente considerando e rispettando l’impotenza al lavoro dei loro operai.
«Le lagrime rasciugate e i dolori leniti mediante la di Lui munificenza durante le inevitabili malattie quando più assilla il bisogno saranno un monumento imperituro e degno di Lui, del di Lui nome grande che rimarrà scolpito nel libro d’oro dei Benefattori del nostro Sodalizio».
Dando alla memoria, assolutamente indimenticabile per noi, del nostro amatissimo Maestro lo spazio di tre pagine, abbiamo oltrepassati, lo sappiamo, i limiti che egli stesso – con serena stoicità, parlando dell’umana eventualità, certa nel fatto per quanto incerta nell’ora, aveva, direttorialmente, indicati. Ma non era assolutamente possibile fare diversamente, e per sfogo agli animi nostri, e per dovere, in parte assolto, verso gl’innumerevoli, che Io amavano e vollero onorarlo. Ma a volere dire tutto, riprodurre tutto, non basterebbero più numeri dell’Illustrazione, ciò che urterebbe contro tutti gl’insegnamenti e la precisa volontà di Lui.
Qui chiudiamo dando posto a questi due telegrammi, e l’eccezione non abbisogna di parole:
Il presidente dei ministri, Salandra, così ha telegrafato:
«Legato da antica amicizia al comm. Emilio Treves, del quale ho sempre ammirato la nobile attitudine, che tanto impulso conferì alla coltura in Italia, ho appreso con vero dolore la notizia della sua morte e mando alla sua famiglia le condoglianze più sentite per la grave perdita».
Gabriele d’Annunzio ha diretto alla signora Susette Thompson Treves, vedova di Emilio, questo dispaccio:
«Ho perduto un grande e fedele amico e il mio cuore doloroso non ricorda oggi se non la sua bontà paterna che superava sempre ogni dissentimento. Spero di poter disegnare un giorno la sua figura quale la compresi e l’amai. Vi sono vicino con tutto il mio cuore».
Nell’impossibilità di rispondere alle innumerevoli espressioni di cordoglio pervenute in questi giorni da collaboratori vecchi e nuovi, dai colleghi della stampa, da editori e librai di tutt’Italia, dagli amici, dagli estimatori e dai conoscenti, rivolgiamo a tutti i sensi della nostra commossa gratitudine. E particolarmente ringraziamo i valorosi scrittori che vollero rievocare con vibranti ed affettuose parole la figura e l’opera di Lui che fu fino all’ultima ora l’anima di questo giornale. Raccoglieremo a suo tempo quanto fu scritto intorno ad Emilio Treves, perché dell’universale compianto che suscitò la sua scomparsa rimanga memoria perenne.