L’Illustrazione Italiana, 30 gennaio 1916
Nel trigesimo della morte di Giuseppe Miraglia
Si compieva il 21 gennaio un mese dalla morte del tenente di vascello Giuseppe Miraglia, che nei camerati ha lasciato così profondo il ricordo di sé, all’Armata ha dato esempio nobilissimo di ciò che possa il fervore di un’anima accesa dall’ideale, fortificata dall’idea del dovere.
Per desiderio della famiglia dell’estinto, la sua spoglia mortale venne deposta nel nostro San Michele, in provvisoria sepoltura come dapprima si credette, ma in riposo eterno, come volle la pia madre, cui repugna certo rimovere i resti sacri dall’avello serbato dal destino in faccia all’Adriatico, in faccia al mare che egli volle riconquistato alla Patria.
E ancora, per desiderio della famiglia, Gabriele d’Annunzio, fratello d’armi e amico dilettissimo del defunto, volle presiedere alla erezione di un ricordo funebre sulla tomba fresca che si volle onorata nel giorno trigesimo dalla morte.
Compito non facile, data la ristrettezza del tempo e la nobiltà dell’opera, che Gabriele d’Annunzio affidò ad Achille Tamburlini.
Volle il maestro una stele di marmo, di stile classico, arricchita di un simbolo in bronzo, e di concerto con l’artista, fu posta da banda l’idea dell’aquila e fu prescelto il simbolo di Icaro. E ieri, a soli diciasette giorni di distanza dalla prima ideazione, il monumento funebre veniva inaugurato alla presenza del Comandante in capo del Dipartimento Marittimo, di alcuni altri alti Ufficiali dell’Armata, di più giovani camerati dell’Estinto appartenenti all’Esercito ed alla Marina, del conte Luigi Dona dalle Rose in rappresentanza del Sindaco. Pochi altri, amici ed ammiratori, si stringevano intorno alla famiglia, ieri alle tre, sotto una caligine densa, nel campo che il Comune ha riserbato ai caduti per la Patria.
Una schiera di frati, uscita dalla chiesa, si avviò processionalmente alla tomba, passando in mezzo alle autorità, e disse le preghiere dei defunti, mentre gli astanti, sull’esempio del Comandante in capo, si scoprivano reverenti.
La stele si profila sul verde con linea purissima e romanamente austera. Il plinto, vigorosamente tagliato nella pietra, assume opulenza arcaica dai rapporti con la semplicità schematica dello specchio sul quale è incisa a parole d’oro una semplice, forte epigrafe dettata da Gabriele d’Annunzio. Al sommo s’incastra il bassorilievo in bronzo raffigurante Icaro, opera di grande nobiltà, per la concezione che l’ha sorretta, per la sicurezza della fattura, per la originalità del taglio. Il bassorilievo è come dominato da una vasta ala dorata, alla quale si avvinghia un braccio tuttora vivo e nervoso. Ne l’ombra è il torso giovine, e in ombra ancora più profonda è la testa dell’eroe, già abbandonata, con la chioma al vento, già tocca dal freddo bacio della morte.
Sotto al bassorilievo vivono le parole in bell’oro vecchio:
Qui si scioglie il peso mortale del tenente di vascello Giuseppe Miraglia ch’ebbe d’Icaro l’animo e la sorte, ma le sue ali immortali solcano tuttavia il cielo della Patria sopra il Mare liberato – XXI Giugno MDCCCLXXXIII – XXI Decembre MCMXV.
Sotto l’epigrafe, si protende una viva testa d’aquila in bronzo a reggere le ghirlande del ricordo, e ieri una ghirlanda purpurea diceva l’omaggio devoto dell’amico all’eroe.
Appena finita la breve salmodia dei frati, Gabriele d’Annunzio si spiccò dal fianco di Piero Foscari che gli era compagno, e scopertosi il capo, cominciò a parlare. La voce aveva velata da commozione intima, lo sguardo scintillante come per uno sforzo di volontà che si tenda a soggiogare la voce di tenerezza sorgente dal cuore, perché soltanto il fiero squillo della celebrazione si spanda fra gli astanti.
Il saluto del poeta
E il maestro così parlò fra l’intensa commozione dei presenti:
«Abbiamo dato a questo cippo la foggia romana, e con vigore romano il tagliapietra della Laguna v’ha intagliato le modanature del plinto.
«E l’abbiamo voluto di pietra d’Istria, dura di grana, resistente alla salsedine, amica del tempo; l’abbiamo fatto della pietra medesima ond’è costrutto quell’anfiteatro di Pola che il nostro compagno vide tante volte laggiù su la riva usurpata biancheggiare profondo, nel vento del suo volo e nell’intrepidità del suo spirito.
«E alla pietra istriana abbiamo commesso il bronzo veneto, l’ottimo bronzo dei tre pili d’Alessandro Leopardo piantati in piazza a sostenere i massimi stendardi della Dominante, di quella eh’è per recuperare il soprannome e il dominio.
«E due furono gli artefici di quest’opera improvvisa che quasi a miracolo abbiamo potuto inalzare su la sepoltura del nostro compagno nel trigesimo del suo trapasso.
«Il primo artefice fu l’Amore che tutto può che tutto dona e – come diceva il Mistico, come ben sapeva l’eroe qui tumulato – «sopra ogni cosa vuol donare sé stesso».
«Fu il secondo un figliuolo di Trieste elettissimo, un fuoruscito della città santa, un nato del popolo che aspetta in schiavitù; e, per amor dell’Amore, ha egli scelto la miglior pietra, aguzzato il suo miglior scalpello, vegliato e aiutato il fuoco nella notte con la sua ansia, fatto vigilia d’ogni suo giorno, lavorato fino a quest’ora, sicché del suo sforzo devoto pare ancor caldo il metallo.
«Nella cavità dove gli antichi nostri solevano porre il simulacro del defunto o alcuna imagine familiare, abbiamo incastrato il braccio nervoso d’Icaro che tende l’ala cadevole verso la luce con l’ultimo sussulto del suo ardire mentre il capo chiomato già gli si rovescia nella vertigine dell’ombra.
«Inciso è nel fondo il richiamo di Dedalo che vede il giovine avido andare troppo oltre, salire troppo alto. «Icaro! Icaro!».
«L’eroe non ode rammollimento che viene di giù. Ogni buono eroe non ode se non il suo cuore e la voce dell’altezza.
«Così questi che ora nella terra si scioglie.
«Pietra acherontica chiamavano il cippo sepolcrale gli Antichi nostri.
«Pietra icaria chiamiamo noi il cippo alzato sul sepolcro di Giuseppe Miraglia.
«Se colonne miliari potessero esser fitte nelle vie del cielo come nelle terrestri, questa sarebbe insigne e santa quant’altra mai; e inciterebbe i compagni ei successori a superarla.
«I nostri occhi d’Italiani risoluti a compiere il dover nostro e oltre, i nostri occhi oggi sgombri di lacrime e lucidi d’un dolore virile, la considerano come una mèta severa della volontà eroica».
Il Comandante in capo, che si era tenuto fermo tra la cerchia degli astanti, si avanzò allora fino alla tomba, e, fatto il saluto militare, rimase alcuni momenti in pio raccoglimento. Poi si avanzarono gli altri, tutti, e per un momento gli spiriti si confusero in un solo atto di fervore. Fu notata la profonda commozione d’un gruppo di giovinetti aspiranti di marina, fresca speranza nostra.
Interprete del rimpianto suscitato dalla morte del Miraglia nelle nostre squadriglie d’aviatori operanti lungo il fronte, il capitano Ermanno Beltramo, che fu il pilota di D’Annunzio nel volo su Trento e in molte incursioni sull’altipiano di Bainsizza e sul Carso, ha inviato al Poeta un telegramma per pregarlo d’intrecciare per lui un ramo di rose intorno al cippo funerario.
Venezia, gennaio