Corriere della Sera, 1 luglio 2016
Quando la mafia entrò per la prima volta in un romanzo. Il libro è Il giorno della civetta, l’autore Leonardo Sciascia, l’anno il 1961
Il giorno della civetta fu pubblicato nel 1961 da Einaudi. L’autore aveva quarant’anni e si era già distinto come scrittore dal forte impegno civile con Le parrocchie di Regalpetra (1956) e Gli zii di Sicilia (1958). Mai, prima di allora, la mafia era stata la protagonista di un racconto letterario, per questo il romanzo ebbe subito successo, dando a Leonardo Sciascia fama e autorevolezza. Una storia di fantasia, ma che attingeva al reale, alle esperienze vissute dal giovane maestro elementare nell’angolo di Sicilia dove era venuto al mondo.
Lo spunto del romanzo fu dato dall’assassinio, nel gennaio 1947, del sindacalista comunista di Sciacca, Accursio Miraglia. Ma – e sarà lo stesso Sciascia ad ammetterlo – quella storia egli l’aveva dentro fin dal 1944, quando nel suo paese, Racalmuto, era stato ucciso il sindaco Baldassare Tinebra. Così lo scrittore nelle Parrocchie : «Il sindaco del ’44, l’uomo tirato su dagli americani, lo ammazzarono la sera del 15 novembre di quell’anno; era sera di domenica, la piazza piena di gente, gli appoggiarono la pistola alla nuca e tirarono, il sindaco aveva intorno amici, nessuno vide, si fece vuota rosa di paura intorno al corpo che crollava…».
Niente so e niente ho visto. Anche se tutti avevano visto e tutti sapevano. Nel Giorno della civetta, un testimone chiamato a dire cosa avesse visto o sentito quando nel piccolo paese era stato ucciso tale Salvatore Colasberna, al maresciallo dei carabinieri che lo interroga, con meraviglia risponde: «Perché, hanno sparato?».
C’è tutto quanto l’autore aveva appreso del «sentire» mafioso, dentro questo breve romanzo: il silenzio omertoso, la siderale distanza tra i cittadini e lo Stato, l’idea tribale della famiglia e quella, equivoca e soffocante, dell’amicizia, la complicità tra mafiosi e politici, il controllo malavitoso degli appalti, l’imposizione del «pizzo» e il metaforico espandersi al nord del Paese della nordafricana palma. E qui va detto che proprio in questa metafora, divenuta proverbiale, si coglie la distanza temporale tra i lettori di oggi e Il giorno della civetta.
In Sicilia non ci sono più palme «africane»: un insetto – «punteruolo rosso» il suo nome – le ha uccise tutte. Per questo la «fantasia» del capitano Bellodi ai giorni nostri non avrebbe più senso («gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma…»). Oggi gli scrittori per rendere quel senso dovrebbero escogitare altre metafore.
Per il resto, tutto quanto nel Giorno della civetta viene detto sulla mafia, rimane di un’attualità che sorprende e sconcerta. Con chiarezza vi è suggerito ciò che realmente può servire – avendone voglia e capacità – per contrastarla. «È inutile tentare di incastrare nel penale un uomo come costui», è sempre il capitano Bellodi a esprimere il suo pensiero, questa volta in riferimento al capo-mafia del romanzo. «Non ci saranno mai prove sufficienti, il silenzio degli onesti e dei disonesti lo proteggerà sempre… Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti… Sarebbe meglio ci si mettesse ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti, di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso…». Chissà quante sorprese se lo si facesse oggi, a distanza – vale ripeterlo – di oltre mezzo secolo da quando Sciascia lo scriveva.
E si può andare anche più indietro, fino al 1957, quando su «Tempo presente», lo scrittore aveva dato la più chiara e veritiera definizione della mafia: «Una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi di violenza».
Per questo è opportuno leggere o rileggere questo romanzo, il primo a parlare di criminalità organizzata. E fu l’autore a sottolinearlo, allorché nel 1972 la casa editrice Einaudi ne propose una versione scolastica: «Ho scritto questo racconto nell’estate del 1960. Allora il Governo non solo si disinteressava del fenomeno della mafia, ma esplicitamente lo negava».
Divenuto, nel 1968, un film, Il giorno della civetta rese popolare l’autore. Fu Damiano Damiani a portare il romanzo sullo schermo, interpreti: Franco Nero, Claudia Cardinale e un indimenticabile Lee J. Cobb, nella parte di don Mariano Arena, il capo mafia mandante del delitto con cui prende avvio la vicenda.
Eppure, sarà proprio il successo del film e poi delle tante rappresentazioni teatrali a provocare malumore nell’autore del romanzo. Lo scrittore finì per rendersi conto del parteggiare degli spettatori per il boss mafioso a svantaggio dell’eroe positivo, il capitano Bellodi. La suddivisione dell’umanità in cinque categorie, così cinicamente ma efficacemente formulata da don Mariano divenne subito proverbiale, e nelle rappresentazioni teatrali accolta con applausi entusiastici.
Ricordiamo il celebre monologo: «Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà».
Nel suo apprendistato giovanile Sciascia aveva avuto modo, come raccontò nelle Parrocchie, di conoscere «ominicchi» e «quaquaraquà», e certamente anche qualche capo bastone, uno di quegli uomini rozzi e violenti, ma dall’indiscussa autorevolezza nel loro miserabile ambiente. Uno di quei ceffi che gli americani del colonnello Charles Poletti scelsero come interlocutori privilegiati – e ben remunerati – per mantenere l’ordine nella Sicilia subito dopo lo sbarco della settima armata statunitense. C’è qualcosa di nuovo, oggi in Sicilia. Anzi d’antico.