La Stampa, 1 luglio 2016
Gli Usa hanno bombardato Falluja e ora puntano su Raqqa. L’Isis è sempre più in difficoltà
I video dei raid lanciati mercoledì contro l’Isis a Falluja, che secondo le stime del Pentagono hanno distrutto almeno 40 veicoli e ucciso circa 250 terroristi dell’Isis, ricordano molto le immagini dei bombardamenti del 1991 contro le truppe di Saddam Hussein che avevano invaso il Kuwait. Questa somiglianza consente anche un’analisi su quanto è stato possibile fare finora sul piano militare contro l’Isis, come sta cambiando la situazione sul terreno, e cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro: «Ora – ha detto ieri il capo del Pentagono Carter – puntiamo su Raqqa».
I raid di mercoledì hanno preso di mira un convoglio dell’Isis che scappava da Falluja, dopo la riconquista da parte delle truppe irachene. Un’operazione di bombardamento aereo tradizionale, appunto come quelle del 1991 o del 2003, consentita dal fatto che le nuove truppe irachene, addestrate e aiutate dagli occidentali, sono andate sul terreno a cercare i militanti dell’Isis casa per casa. Gli uomini dell’Isis sono stati costretti a scappare, con una manovra abbastanza usuale. Questo ha tolto loro la protezione offerta finora dal fatto di nascondersi tra le case dei civili, e li ha esposti all’attacco alleato. Sul fronte aperto, in altre parole, non c’è storia: quando lo Stato islamico è costretto a combattere secondo i parametri della guerra tradizionale, la sconfitta è inevitabile.
Il problema finora è stato che i circa 13 mila raid condotti dagli Usa e dai loro alleati in Iraq e Siria hanno dovuto seguire una logica diversa. L’Isis non schierava truppe convenzionali e si nascondeva tra i civili, complicando così l’individuazione degli obiettivi, condotta anche dalle ricognizioni dei Tornado italiani, e limitando la forza con cui potevano essere colpiti. Questo ha spinto il generale Robert Otto, capo dell’intelligence dell’Air Force, a dare un voto insufficiente ai bombardamenti aerei, 5 su 10, durante un’intervista con la Cnn. Non per criticare, ma per affermare che «c’è sempre spazio per migliorare». Anche il capo della Cia, Brennan, ha condiviso questa valutazione, sempre nell’ottica di potenziare le operazioni.
I mutamenti in corso sul terreno forse cominciano a consentire un aggiornamento della strategia. In Iraq l’Isis ha perso circa il 45% del territorio che occupava al momento della sua massima espansione, e in Siria il 20%. Questi progressi sono dovuti al potenziamento delle forze locali che combattono sul terreno, soprattutto in Iraq, e al lavoro di intelligence, e hanno messo l’Isis sulla difensiva. Quando i terroristi sono costretti a venire allo scoperto, diventano obiettivi più facili da colpire.
Se questa strategia continuerà a fare progressi, i nuovi problemi da affrontare diventeranno principalmente due. Primo, il rischio già evidente che l’Isis reagisca colpendo con azioni terroristiche fuori dal teatro originario dello Stato islamico, come dimostrano Istanbul, Parigi, Bruxelles, e i timori espressi proprio da Brennan per attentati simili negli Usa. Secondo, la necessità di rafforzare il dialogo e la collaborazione con le comunità sunnite, come era accaduto al tempo dell’Anbar Awakening condotto dal generale Petraeus, per fare in modo che le popolazioni abbandonino l’Isis e si sentano abbastanza garantite dalle forze che lo combattono. Più facile in Iraq, finora, che non in Siria, dove invece l’Isis ha lanciato un contrattacco contro le poche forze locali impegnate a combatterlo nella zona di Boukamal. Se poi questa strategia funzionasse, e l’Isis entrasse davvero in crisi, bisognerebbe anche cominciare a porsi il problema di anticipare la prossima forma che prenderà il jihadismo globale.