Corriere della Sera, 1 luglio 2016
Tutto quello che c’è da sapere su Paolo Genovese, fino a pochi mesi fa un perfetto sconosciuto
Non frequenta, non coltiva, non compare. I salotti si diverte ad allestirli sui set dei suoi film, gli scatti dei fotografi che predilige sono quelli di scena. I giornali li legge in cerca di spunti ma non muore dalla voglia di essere lui l’argomento principale. Insomma, un aspirante perfetto sconosciuto, Paolo Genovese, il regista e co-sceneggiatore della fortunata commedia che lo ha messo sotto i riflettori. Perfetti sconosciuti, appunto, un successo oltre da 17 milioni di euro di incasso, venduto in tutto il mondo, remake in programma in 30 Paesi, premiato al Tribeca di De Niro, miglior film ai David di Donatello, in lizza nella cinquina commedia dei Nastri d’argento in programma domani a Taormina dove sarà premiato il suo cast (Giuseppe Battiston, Anna Foglietta, Marco Giallini, Edoardo Leo, Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher e Kasia Smutniak). «È vero sì, apparire non mi piace. Sono un timido, non mi sento a mio agio sotto i riflettori. Preferisco parlare attraverso i miei film. Non sono un tipo glamour, sono legato alla stessa donna da vent’anni, non faccio vita mondana. Per un attore è diverso, la popolarità in quel caso fa parte della misura del successo. Mi piace l’identificazione, che il pubblico venga a vedere una tua cosa e ci si riconosca, che venga apprezzato il lavoro che fai. È già abbastanza da narcisi questo, non mi serve altro». Romano, classe 1966, segno zodiacale Leone, maturità classica al Giulio Cesare (il liceo di corso Trieste «dove Nietzsche e Marx si davano la mano», celebrato da Antonello Venditti e frequentato, negli anni, da Marco Pannella, Maurizio Costanzo, Serena Dandini), una laurea in economia e commercio, tre figli. A fare il regista da bambino non ci pensava proprio. «Puntavo a cose tipo il calciatore o l’astronauta. Ma raccontare storie è la cosa che mi è sempre piaciuta di più».
Incantesimo
Che potesse diventare un lavoro lo ha capito facendo il pubblicitario. Insieme all’amico Luca Miniero. «Ho iniziato a lavorare dopo l’università, non vengo da una famiglia ricca. Con Luca ci siamo ritrovati insieme in un’agenzia di pubblicità, ci venivano bene gli spot». Talmente bene che si sono licenziati e hanno cominciato con il cinema, grazie all’accoglienza del loro primo cortometraggio, Incantesimo napoletano. «L’incredibile storia della famiglia Aiello», integralisti partenopei in cui nasce una bambina che parla in milanese, diventato poi un lungometraggio. «Era il 1998, vincemmo premio della Giuria a Locarno». Hanno fatto film a quattro mani fino al 2010, poi le strade si sono separate. «Il legame è rimasto ma ognuno fa il suo».
Attraverso i film, a saper leggere tra i fotogrammi, racconta molto anche di sé. Per esempio, con Immaturi (che sta diventare serie tv, con la regia dell’amico Rolando Ravello. «Continuavano a chiedermi il terzo episodio ma io non me la sentivo. Visto che c’è ancora da raccontare, farne una serie è la soluzione giusta») condivise la sua paura dell’esame di maturità e «l’incubo ricorrente di essere costretto a sostenerlo di nuovo». Sei anni dopo, con Perfetti sconosciuti ha affidato a Marco Giallini-Rocco qualcosa che ha molto a cuore: la sua idea di paternità, condensata nella telefonata con la figlia adolescente. La confidenza sottintesa nel racconto della sua prima volta. «Ho una figlia di dodici anni. Ecco, quella è la telefonata che mi piacerebbe vivere, racconta di una fiducia tra padre e figlia che ti devi essere conquistato e che viene ripagata. Ma non sarò così bravo probabilmente. Però mi piace immaginare che potrei esserlo».
Spirito di gruppo
Che non sia un narciso egocentrico, Genovese, si intuisce anche dal fatto che racconta sempre storie collettive. «È vero ho sempre fatto film corali». A dire la verità, ammette, un film per un protagonista unico ce l’ha in punta di penna. «Ma sta lì, in attesa. Mi piacerebbe scrivere per un attore solo, ma poi quando penso nuovo film lo immagino di gruppo. Allargo sempre per avere più punto di vista. Uno non mi basta. E poi nel gruppo si generano risorse. Sarà forse perché ho un fratello ma mi viene naturale pensare al plurale». I suoi attori e collaboratori confermano. Genovese sul set è quel che si definisce «una chioccia».
Adesso, grazie al successo di Perfetti sconosciuti, si gode una bolla di assoluta libertà. «Oggi sono nella fortuna condizione che qualunque cosa io proponga trovo qualcuno pronto ad ascoltare. Volessi girare una storia d’amore tra un cocker e un babbuino pigmeo mi direbbero di sì. Ma il prossimo film preferisco sbagliarlo piuttosto che fare qualcosa banale». Ansia da prestazione? «Certo. Ma è giusto, il successo ti dà opportunità ma anche responsabilità. La commedia è un genere meraviglioso, ha raccontato in maniera incredibile questo paese: Scola, Monicelli, Salvatores, Benigni. È importante ogni tanto ricordarlo, soprattutto in un anno ricco come questo: La pazza gioia, Lo chiamavano Jeeg Robot, Quo vado? Tutti diversi, in comune c’è l’originalità, il carattere, non la declinazione di qualcosa già visto o già fatto. Se segui sempre il solco fai fotocopie e pian piano sono sempre più sbiadite».
La doppia vita degli oggetti
Si è spostato di poco dal quartiere di gioventù, ora abita ai Parioli. Ad arredare la casa ci pensa la moglie Federica. «Per vent’anni ha fatto la musicista, ha suonato la viola con Ennio Morricone. Ora si diverte con i mobili dei set, le piace riciclare. Ha cominciato per divertimento e ora ha messo su un posto suo». Si chiama Scenography. «È diventata una sua attività. La filosofia originaria è non buttare. È qualcosa che io condivido. Per motivi etici e perché così non perdi la memoria delle cose. Gli oggetti devono fare compagnia, diceva Achille Castiglioni». E, a saperli ascoltare, raccontano storie. Come i cellulari di Perfetti sconosciuti.