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 2016  luglio 01 Venerdì calendario

Venivano dalle ex repubbliche sovietiche i tre i kamikaze dell’aeroporto di Istanbul

La strage di Istanbul porta la firma di tre kamikaze stranieri: un daghestano, un uzbeko e un kirghizo. Figli della Jihad del Caucaso che ha spinto molti militanti a spostarsi in Siria, nelle file dell’Isis ma anche dei qaedisti di al Nusra. All’identificazione – presunta – si è arrivati dopo una massiccia operazione della polizia turca. Gli agenti hanno arrestato 22 persone in molte località e hanno individuato una base operativa nel quartiere di Fatih, zona dove vivono molti profughi siriani. In un appartamento, affittato in marzo, sarebbero stati trovati i documenti di viaggio del terzetto ed altri elementi utili per far chiarezza sulla strage costata la vita a 44 persone.
Gli attentatori – dicono le indiscrezioni – sono entrati in Turchia circa un mese fa, quindi hanno creato il loro covo in vista dell’assalto. E secondo la tracce recuperate dagli investigatori almeno uno dei terroristi è arrivato dalla Siria con un passaporto falsificato. Una presenza discreta non passata però inosservata.
Una donna della palazzina ha raccontato che da qualche giorno si sentiva un odore strano, simile al gas. Forse erano i «fumi» provocati dalla preparazione degli ordigni. Martedì i tre hanno preso un taxi dirigendosi verso l’aeroporto dove sono arrivati senza problemi in quanto il mezzo non è stato fermato dai militari di guardia ad un checkpoint. Una volta allo scalo si sono divisi puntando sui loro obiettivi. Gli inquirenti ritengono che fosse loro intenzione prendere degli ostaggi per poi ucciderli attivando le fasce esplosive. Tattica consueta per creare il maggior danno possibile ma anche prolungare la sfida alle autorità.
I dettagli investigativi si intrecciano con le informazioni diffuse dalle rete americana «Nbc» che parlano di un numero maggiore di militanti pronti a colpire: almeno 35 seguaci del Califfo ai quali è stato dato l’ordine di scatenare una campagna sanguinosa sul territorio turco. Si tratta ovviamente di segnalazioni «grezze», ma che sono la spia di una minaccia incombente quanto ricorrente. I servizi di Ankara hanno in queste ore accentuato i controlli proprio nel timore di nuove azioni. Attività preventiva che avrebbe portato all’uccisione di due sospetti, tra cui un possibile uomo-bomba, al confine con la Siria. Per i media locali non è escluso che avessero come bersaglio la stessa capitale o la città di Adana. Lo scenario è quello di cellule venute da fuori che si sovrappongono al network turco dell’Isis, una struttura sopravvissuta a molte retate.
Quanto al coinvolgimento dei caucasici non è certo una sorpresa. La diaspora orientale è ben radicata a Istanbul, una presenza storica spesso presa di mira dagli agenti segreti russi. Inoltre nel gennaio 2015 una donna del Daghestan, Diana Ramazanova, si è fatta esplodere a Istanbul. La militante era la compagna di un mujahed norvegese-ceceno morto in battaglia in Siria. Ultimo esempio delle ormai note vedove nere impiegate dai separatisti ceceni.
È una situazione dove non sempre tutto è lineare. L’ambiguità della Turchia sui suoi rapporti con frange islamiste alla fine le si ritorce contro. Alcuni osservatori sono sempre piuttosto cauti sulle versioni ufficiali, c’è sempre il timore di manipolazioni. Cosa che si è ripetuta ieri quando i funzionari hanno mostrato la carta d’imbarco di uno degli estremisti uccisi alla frontiera. L’uomo si sarebbe imbarcato, il 21 giugno, a Damasco su un volo diretto a Qamishli, nel nord est della Siria. Percorso strano visto che la cittadina è nella regione curda, con i guerriglieri duri avversari dell’Isis. Ankara vuole alludere a possibili connessioni (indirette) con i suoi nemici storici?