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 2016  giugno 29 Mercoledì calendario

L’altro Bud Spencer, raccontato da Ermanno Olmi

Nel 2002, quando Ermanno Olmi girava Cantando dietro i paraventi in Montenegro, le navi erano pronte a partire con la vedova Ching e la sua ciurma di pirati, ma mancava l’attore che avrebbe fatto il narratore-nostromo. 
Racconta Olmi da Asiago dove sta montando il suo nuovo film sul cardinale Martini: «Un giorno la mia assistente mi disse: “potrebbe farlo mio zio!” “E sì, mio nonno” scherzai io. “Ma no, dico davvero, mio zio è Bud Spencer”. Detto fatto. Fu chiamato, interpellato, subito scelto». 
Allora gli italiani si cambiavano il nome per fare i western e Carlo Pedersoli si trasformò in Bud Spencer anche in omaggio a un attore che adorava ma che non fece mai a cazzotti, Spencer Tracy. 
«Io gli restituii finalmente il suo vero nome che a volte nessuno però conosceva ma di cui Carlo andava ovviamente fiero: quello d’arte è costruito per imparentarsi con un sogno, è sempre stato così, l’industria lo richiede». 
Come fu il set?
«Il nostro è stato un incontro bellissimo tanto che con lui e Terence Hill c’era l’idea di girare un nuovo Don Chisciotte, tutti d’accordo. Carlo sarebbe stato un Sancho Panza formidabile e ci saremmo sicuramente divertiti tutti moltissimo».
E poi che accadde?
«Accadde che il cinema non si lascia programmare, non ti dice cosa farai domani, per questo non ci annoiamo mai».
Pedersoli, che disse di no a Fellini che lo voleva come Trimalcione nel «Satyricon» per non mostrarsi a sedere nudo, non voleva fare il Bud Spencer, non tirava fuori la scimitarra, era pronto a una nuova identità?
«Era rispettoso del film e infatti fu una bellissima avventura: c’era un rapporto vero, ognuno secondo la sua posizione e professione. Era un attore che per comunicare le sue emozioni usava sempre i canali della giovialità e dell’armonia».
A chi somigliava?
«A nessun attore, non aveva i vizi classici della categoria perciò teneva al suo nome e non si preoccupava di come sarebbe apparso o sembrato: il gioco era scoprirlo dopo. Il suo io restava intonso, se mai somigliava ai bambini che sono felici di giocare anche se non sanno ancora bene che gioco sarà».
Lei l’aveva già conosciuto prima?
«No, era la prima volta, eccetto qualche premiazione, serate mondane, dove lui era sempre gioviale e sincero, mai artefatto e questo risaltava».
L’ha più rivisto dopo il film?
«Sì certo, i rapporti veri non si troncano. Ci eravamo frequentati, ci siamo visti a casa sua con la moglie Maria, figlia del produttore Peppino Amato ed ottima cuoca che ha sulla coscienza un po’ del sovrappeso del marito».
Cosa ha provato quando ha appreso la notizia?
«Che ci mancherà Carlo e ci mancheranno persone così, pezzi unici e non replicabili, gente che sai non ti darà mai una delusione. Ho scritto a Maria che ci sono molte circostanze nelle quali le parole non sono quelle giuste ma è certo che l’amicizia di Carlo è di quelle vere e per sempre».
I 16 film girati con Terence Hill sono stati una miniera d’oro per il nostro cinema. Lui, che si lamentava di non aver mai avuto riconoscimenti e premi, cosa ha rappresentato? 
«Bud Spencer, chiamiamolo così per tutti, ha portato sullo schermo l’onestà e la felicità infantile non concedendo nulla agli atteggiamenti fittizi di un certo mestiere. Era come un uomo che avevo sempre conosciuto dentro di me, un uomo che aveva la misura del garbo e la franchezza dell’onestà».
È morto serenamente l’altra sera a Roma in ospedale, ha detto il figlio. Insomma non se l’è presa col Padreterno.
«Ma perché lui era felice naturalmente, senza saperlo, lo ripeto: come un bambino che si diverte. Non poteva fare a cazzotti con l’al di là».