Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  giugno 26 Domenica calendario

In cerca di un altro Sole, di un’altra Terra

Sapete cos’è un pianeta? Pensiamo tutti di saperlo, ma sapreste darne una definizione, ad esempio parlandone a un bambino? Stranamente non è poi così semplice. Prima del 2006 – dunque dieci anni fa, non un secolo fa – non esisteva neppure una definizione ufficiale. Solo la parola. Pianeta. Parola che abbiamo ricevuto in eredità dai nostri antenati greci. Per loro questa parola aveva un significato particolare, legato a una strana osservazione, che possiamo fare ancora oggi.
Immaginate di trovarvi all’aperto, in una notte d’estate. Volgete tranquillamente il vostro sguardo verso il cielo e sognate le stelle. Vi proiettate per qualche istante nell’immensità del cosmo, un’immensità che ci invade, ma che, tutto sommato, ci fa del bene. Talmente bene che ritornate il giorno dopo, e quello dopo ancora, e tutti i giorni seguenti, alla stessa ora, per poter continuare il vostro sogno. Da fini osservatori, vi rendete rapidamente conto che alcuni dei punti che luccicano nella notte al di sopra delle vostre teste non si muovono come tutti gli altri. Quasi tutte le stelle si spostano tranquillamente da est a ovest, come fossero attaccate a una sfera trasparente che ruota intorno alla Terra.
In realtà non si muovono affatto, certo. È il movimento della Terra che, girando su se stessa, ci dà questa impressione. Ma non tutte obbediscono a questo movimento collettivo. Alcuni di quei punti luminosi non sembrano affatto attaccati a quella sfera. Alcuni addirittura tornano indietro nel loro cammino e disegnano un anello nel cielo prima di riprendere il loro corso. Questi strani corpi celesti venivano chiamati dai greci stelle viaggianti, o vagabonde. In greco vagabondo si dice plànetes, che nella nostra lingua diventa «pianeta».
Questi punti luminosi che non ruotano come gli altri sono Giove, Saturno, Marte e Venere (quelli che possono essere visti a occhio nudo) e Nettuno, Urano e Mercurio. Non sono stelle. Non brillano di luce propria. Se li vediamo nel cielo è perché riflettono la luce del Sole, il quale sì, è una stella. C’è stato poi bisogno di un certo periodo di tempo per realizzare che la Terra sulla quale noi viviamo è anch’essa un pianeta. E abbiamo dovuto attendere il 2006 – appunto – perché l’Unione Astronomica Internazionale si mettesse d’accordo su una definizione fisica del significato di questo termine.
Dal 2006, dunque, devono essere soddisfatte tre condizioni per far sì che un corpo celeste possa ambire al titolo di pianeta. Eccole. La prima è che il candidato in questione deve girare attorno al Sole e non attorno a qualcos’altro. La Luna, ad esempio, gira attorno alla Terra. Quindi non è un pianeta. È una luna. La seconda condizione per parlare di pianeta è che deve essere tondo. Gli asteroidi, quelle rocce che galleggiano nello spazio vuoto, con la loro forma di patata, non sono pianeti. Sono asteroidi. E che cosa deve succedere perché un corpo celeste sia tondo? È necessario che abbia una massa sufficiente. È la gravità, se sufficientemente forte, con la sua capacità di attirare ogni cosa verso il centro, che trasforma tutto in una palla. La terza condizione per essere un pianeta è che il candidato, rotondo e che gira attorno al Sole, deve aver liberato la sua orbita da tutti i residui che potrebbero essere rimasti. Polveri, rocce, eccetera devono essere scomparsi. Non è così per Plutone, ad esempio, che è tondo, gira attorno al Sole, ma non ha ripulito la sua orbita. Per questo motivo non è più un pianeta. Si dice che è un pianeta nano, o uno pseudopianeta. C’è chi ha trovato la cosa triste, ma se Plutone è stato declassato è perché non è il solo. Oggi conosciamo cinque pianeti nani, ufficialmente riconosciuti come tali. Si chiamano Eris, Ceres, Plutone, Haumea e Makemake. Probabilmente ce ne sono decine d’altri che ancora devono essere scoperti. Alla fine, solo otto astri a noi noti obbediscono ai tre criteri necessari per essere chiamati pianeti. Sono Mercurio, Venere, la Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Alla fine, dunque, non sono molti. Ma se facciamo a meno del primo criterio, se non esigiamo più che l’astro in questione ruoti attorno al Sole, allora ci attende una sorpresa.
Si entra nella categoria degli esopianeti. Un esopianeta è come un pianeta, ma non gira attorno al Sole. La sua (o le sue, se ce n’è più d’una) stella è diversa dalla nostra.
Altri mondiDa molto tempo – e intendo secoli – i nostri antenati si sono posti la seguente domanda: esiste un’altra (o molte altre) Terra da qualche parte nello spazio? È possibile che altri mondi orbitino intorno a stelle diverse dal Sole. Naturalmente i nostri antenati non usavano questi termini, ma tra loro c’era chi era già convinto che sì, là in alto esistevano altri mondi, da qualche parte nell’immensità del cosmo. Alcuni di questi visionari coraggiosi ricevettero come ricompensa il privilegio di essere arsi vivi. Eppure avevano ragione.
Oggi ne abbiamo le prove. Sono stati due astronomi svizzeri – Michel Mayor e Didier Queiroz – ad avvistare un esopianeta per la prima volta nella storia dell’umanità. L’hanno chiamato 51 Pegasi b. Era il 1994. Ventidue anni fa. Noi siamo quindi la prima generazione umana a poter affermare con tanto di prove che sì, esistono altri mondi. Oggi, mentre sto scrivendo queste righe, sono noti 3.272 esopianeti. E ce ne sono altri 4.696 in attesa di conferma, il che significa che per questi sono necessarie osservazioni aggiuntive prima di poter affermare la cosa con certezza. Ma questa cifra non dà un’idea accurata del numero di esopianeti esistenti, dal momento che naturalmente non li abbiamo ancora scoperti tutti. La tecnologia impiegata finora per osservare gli esopianeti non ha indagato che un’infima porzione del cielo. Ci sono stelle che non hanno esopianeti nelle loro orbite, ma ce ne sono altre che ne hanno molti. Prendendo in considerazione ogni cosa, contando quelle che ne hanno molti e quelle che non ne hanno affatto, gli scienziati oggi stimano che nella nostra galassia dovrebbero esserci, in media, un po’ più di due pianeti per stella. Questo porterebbe a supporre la presenza di circa 600 miliardi di esopianeti. Solo nella nostra galassia. E di galassie ce ne sono miliardi.
Carl Sagan, il celebre astronomo, ha scritto: «Se siamo soli nell’universo, che posto disordinato deve essere!».
Ma concentriamoci solo sugli esopianeti che conosciamo già e poniamoci un’altra domanda: potremmo mai raggiungere uno di questi mondi un giorno, o inviare un satellite per poterlo osservare da vicino e, magari, scoprire se ospita la vita? Finora nessuno è stato abbastanza pazzo da pensare di poter spedire un oggetto qualsiasi verso un’altra stella. Le distanze, davvero fenomenali, sembrano invalicabili. Ma tutto questo potrebbe essere sul punto di cambiare.
Il primo viaggio interstellareNello spazio ci sono stelle ovunque. Deve per forza essercene una che si trovi più vicina al Sole rispetto alle altre. Si chiama Proxima Centauri. Proxima Centauri è una stella minuscola, di un tipo che gli scienziati chiamano nana rossa. Le nane rosse sono molto meno calde del Sole, ma vivono molto, molto più a lungo. Il nostro Sole è una stella solitaria; Proxima Centauri invece fa parte di un piccolo gruppo di tre stelle, chiamato Alfa Centauri. Gli altri due membri del gruppo sono ben più brillanti e ben più vicine tra loro rispetto a Proxima. Si possono vedere bene di notte dalla Terra. Formano un punto, il terzo più brillante del cielo, osservabile però solo dall’emisfero australe.
Attorno alla più piccola di queste due stelle sono stati osservati due esopianeti. Non sono così diversi per dimensioni rispetto alla Terra, ma le loro orbite li rendono piuttosto inospitali: sono troppo vicini alla loro stella e hanno dunque temperature davvero troppo elevate perché si possa sperare di trovarci la vita, almeno così come la conosciamo qui sulla Terra. Ma il fatto stesso che ne abbiamo trovati due, apre l’eccitante prospettiva di trovarne altri, che potrebbero magari avere delle temperature di superficie più clementi.
Se fosse così, non si potrebbe trovare un luogo migliore per iniziare le nostre ricerche sulla vita extrasolare.
Ma è un luogo lontano.
Molto lontano.
Con le attuali tecnologie, con le velocità che al giorno d’oggi possiamo imprimere ai nostri satelliti, dovremmo prevedere un viaggio di circa 30 mila anni.
Ed è qui che Stephen Hawking e Yuri Milner entrano in gioco. Il 12 aprile scorso, in occasione del cinquantacinquesimo anniversario del primo volo spaziale di Yuri Gagarin, Yuri Milner (che si chiama così in omaggio al primo Yuri) ha annunciato il suo progetto – denominato Breakthrough Starshot – di inviare un satellite proprio lì, e con un viaggio di soli vent’anni. Ora la cosa diventa molto più interessante. L’idea, naturalmente, non è quella di usare un normale satellite, bensì un satellite che pesa... meno di un grammo. Un nanosatellite.
È chiaro che la tecnologia per farlo ancora non esiste. Ma non dobbiamo inventare proprio tutto. Ad esempio, esistono già delle macchine fotografiche che pesano quasi nulla, come quelle che si trovano nei nostri telefoni cellulari. Si tratterebbe solo di migliorarle. Per contro, ci sono altri problemi completamente inediti. Eccone uno: come fare a fabbricare un motore a razzo che pesi così poco? La risposta tecnologica che è stata proposta è sconcertante: non utilizziamo alcun motore. L’idea di Milner e Hawking per raggiungere Alfa Centauri è quella di imprimere la spinta al nanosatellite direttamente dalla Terra utilizzando un laser superpotente.
Il nanosatellite, con la sua batteria e la sua macchina fotografica, verrebbe montato su una specie di vela di 4 metri per 4, che verrebbe spinta da un laser, costruito su una montagna dell’emisfero australe, come se ci soffiasse dentro, fino a che l’apparato non raggiunga una velocità prossima ai 160 milioni di chilometri orari. È terribilmente veloce. C’è da sperare di non trovare delle rocce lungo il cammino. D’altra parte, fare la cartografia di tutti i potenziali pericoli del tragitto fa parte dello scopo della missione. E accade che – che colpo di fortuna! – per raggiungere Alfa Centauri il nostro minuscolo satellite non dovrà neppure attraversare il Sistema solare, bensì uscirne, per rendere le cose semplici, in verticale. Attorno al Sole non c’è altro che pianeti che girano in tondo e innumerevoli zone di polvere e rocce. Ma tutti questi oggetti, potenzialmente catastrofici per una simile missione, sono più o meno distribuiti come su un piatto, all’interno di una specie di disco centrato sul Sole; e il sistema di stelle di Alfa Centauri non si trova su questo piano. Ne sta al di sotto. Il nanosatellite, quindi, potrà (e dovrà) abbandonare subito la zona più pericolosa.
Una volta fuori, non c’è che il vuoto interstellare e ci sono ben poche probabilità che incontri delle polveri più grosse dello spessore di un capello. E comunque, per ovviare anche a questa eventualità, la squadra di ingegneri incaricata di portare a compimento il progetto dovrà trovare delle soluzioni che, visto il peso massimo dell’apparato, non risulteranno affatto semplici. A 160 milioni di chilometri all’ora una collisione, per quanto piccola, non perdona. Immaginando che la missione veda la luce e che tecnicamente riesca a svilupparsi, sarebbe la prima volta nella storia dell’umanità che un oggetto umano raggiunge un’altra stella. Si sarebbe così aperto il cammino dei viaggi interstellari, anche se si tratterebbe – è chiaro – di un viaggio di sola andata. Spedire degli esseri umani laggiù è tutto un altro paio di maniche.
Ma se quel nanosatellite trovasse, per caso, un pianeta abitabile, allora, secondo me, le tecnologie per spedire anche degli uomini e delle donne non tarderebbero a fiorire.
(traduzione di Michele Luzzatto)
© 2016 C. GALFARD