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 2016  giugno 28 Martedì calendario

Il voto visto dall’Andalusia. I popolari hanno superato i socialisti anche lì

Sono in Andalusia non soltanto l’anima di Spagna, ma anche le chiavi del suo governo. Una terra meravigliosa e maledetta, che d’estate ospita venti milioni di turisti stranieri e a ottobre si ritrova silenziosa, quasi deserta, e corrottissima. Rubavano pure sul flamenco: l’ex presidente del Centro andaluso di documentazione sul flamenco Luis Guerrero è indagato per frode; nei tre anni di mandato in ufficio non l’hanno mai visto. I due ultimi presidenti socialisti, Manolo Chaves e José Antonio Griñán, sono sotto processo per corruzione. La disoccupazione è la più alta d’Europa: 31,5%. Non stupisce che i giovani abbiano votato per cambiare, seppellendo memoria e ragioni storiche.
Il golpe di Franco in Andalusia fallì. Le regioni dove ebbe successo sono le stesse in cui il partito popolare è storicamente il primo partito. Ma in Andalusia vinsero i repubblicani. I latifondisti fuggirono precipitosamente, i braccianti rimasero padroni delle fattorie, e per prima cosa macellarono e arrostirono i tori da combattimento: molti non avevano mai mangiato carne bovina in vita loro. Ma i tori erano l’orgoglio dei loro padroni. Quando tornarono, dopo la caduta dell’Andalusia, si fecero indicare coloro che li avevano abbattuti (c’è sempre qualcuno che punta il dito: «lui, lui e lui»), e li fecero fucilare.
Forse anche per questo, oltre che per un sistema clientelare, qui avevano sempre vinto i socialisti. Solo nel 2011, l’anno del trionfo di Rajoy, il Pp aveva preso più seggi; ma nelle elezioni del Natale scorso il Psoe era tornato davanti. Merito della donna forte, Susana Díaz, presidenta dell’Andalusia e aspirante leader del partito al prossimo congresso. La sua idea: togliere di mezzo Pedro Sanchez, consentire la nascita di un governo Pp, e preparare la rivincita.
Domenica però anche la Díaz ha perso. I popolari hanno superato i socialisti anche nella sua regione. Per la presidenta, che si è battuta al ritmo di tre comizi al giorno, è uno smacco; tanto più che il segretario Sanchez è andato meno peggio del previsto, e già fa sapere che non appoggerà mai Rajoy, neanche con l’astensione. Il rebus resta irrisolto: per imporre la loro linea, gli andalusi – la presidenta ha l’appoggio di Felipe Gonzalez, padre storico del Psoe – devono prendersi il partito.
La Díaz ha fatto campagna non tanto contro la destra, quanto contro Pablo Iglesias, che Gonzalez paragona a Trump e Marine Le Pen. A Siviglia la sinistra non è ribellione al governo centrale, come a Barcellona, né radicalismo, come a Madrid, le due capitali governate da sindache vicine a Podemos.
La sinistra a Siviglia è sistema, potere, apparato, sostentamento. Intendiamoci: la città non è mai stata così bella. Il minareto divenuto campanile, l’alcazar dove hanno riaperto due nuove porte, una moresca e una cristiana; i padiglioni restaurati dell’esposizione universale del 1929 in riva al Guadalquivir, e quelli moderni voluti da Gonzalez per l’Expo del 1992, cinquecento anni dopo la scoperta dell’America: Colombo qui è considerato un concittadino, la sua tomba nell’enorme cattedrale è veneratissima, anche se forse i resti non sono proprio i suoi. Non esiste, com’è noto, peggior sorte che essere ciechi in Andalusia, a Granada come a Cordoba come a Ronda come a Malaga, la città dove nacque Pablo Ruiz che scelse il nome genovese della madre: Picasso. Ma la vita pubblica è segnata in modo crudele dalla disoccupazione e dalla corruzione; che talora si incrociano come nello scandalo dell’assessore al lavoro Adolfo Fernandez, dimissionario per aver versato 33 milioni di euro ai corsi organizzati dal predecessore Angel Ojeda.