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 2016  giugno 26 Domenica calendario

L’Italia è al bivio, non è più quel paese con cui si può fare l’amore. Un bell’articolo di Marco Belpoliti

Accattone vive nella periferia romana; si muove tra Pigneto, la borgata Gordiani e Centocelle. Baracche, case basse, grandi spiazzi, palazzoni in costruzione, in mezzo ai segni della guerra terminata da poco. Pasolini, erede del neorealismo cinematografico, fa agire il suo personaggio, un magnaccia, in quella che a lui appare uno spazio magico, favoloso, incantato. La periferia s’oppone al centro, lo contrasta con il suo squallore, la miseria, l’indigenza, la precarietà. La periferia ha ancora un suo senso: circonda la città, ne è il suo margine. Lo vuole essere. Il regista racconta l’orgoglio degli esclusi e dei reietti. All’inizio degli anni Settanta il poeta percepisce però che tutto questo è finito; la periferia, dove pure ha portato Ninetto e Totò in Uccellacci e uccellini a camminare sotto i plinti di cemento del raccordo anulare in costruzione, è ora un non-luogo. Le lucciole non splendono più nei pratoni polverosi dei quartieri periferici, dove di notte il poeta scorazza con la sua automobile sportiva. L’Italia è al bivio, sta cambiando pelle; non è più quel paese con cui si può fare l’amore, come dice il poeta ad Alberto Arbasino in un’intervista. Ora è un serpente che s’avvolge nelle sue spire. Quell’Italia povera e felice amata da Pasolini ci viene ora incontro dalle pagine di un album, una collezione di cartoline vintage raccolta da Paolo Caredda: In un’altra parte della città (Isbn Edizioni). Sono rettangoli colorati o in bianco e nero che mostrano con orgoglio Piazza Guicciardini a Genova con i palazzoni di via Raffaele Ricca, i grattacieli di Bresso, le Nuove Case di Mirafiori a Torino, le zone residenziali di Sesto San Giovanni, il quartiere Gallaratese di Milano, l’edilizia popolare di Fontana Fredda, Sampierdarena affollata, le Case Fiat di via Candiolo nel vuoto dei campi, l’utopia perversa di Zingonia. È la modernità incipiente, che il poeta friulano dichiara peggiore del Fascismo in un profetico documentario sulla forma della città. Nel corso dei decenni che ci separano dalla costruzione dei nuovi quartieri urbani, quasi tutti modellati sul progetto de L’Unité d’Abitation di Le Corbusier a Marsiglia, le periferie urbane italiane hanno conosciuto cicli di vita differenti; sono state abitate da una popolazione mutevole: gli immigrati meridionali del boom hanno lasciato il posto alle genti dell’Est, a romeni e albanesi, poi ai magrebini e neri dell’Africa, e ancora ai migranti delle ultime ondate. Un succedersi di storie, conflitti, scontri che sono passati come acqua su pietra nella memoria collettiva in attesa di una redenzione, di un riscatto sociale, che non è mai venuto. Da luogo di frontiera, come ha scritto Paola Viganò, in una recente mostra, Comunità italia, alla Triennale di Milano, la periferia “non esiste più”. Non perché sia scomparsa. Anzi, è sempre lì, sempre più degradata e disfatta, ma non ha più un centro di cui essere margine. Le città italiane, che pure possiedono i centri storici tra i più belli del mondo, sono composte di spazi discontinui, non omogenei, costituiti di salti e frammenti, così che è difficile dire cosa è centro e cosa è periferia: le case borghesi si succedono alle villette a schiera, i palazzoni agli svincoli e ai raccordi anulari, le torri residenziali si ergono accanto a superstrade, i grattacieli d’uffici s’alzano improvvisi vicino alle vecchie case. Ci sono tanti tipi di spazi che compongono le nostre città, frutto d’idee diverse e progetti contrastanti succedutesi nell’arco di sessant’anni, luoghi dove le densità abitative succedono a spazi vuoti. Nessuno sa più cosa è e dove sia la città fuori dalle antiche mura, oltre i primi viali della circonvallazione, al di là delle stradine del centro.
Il mondo, che racconta Pasolini nei suoi romanzi e film, fino al 1970 è ancora omogeneo e continuo; i poveri vivono in periferia tra le baracche del dopoguerra, lungo le massicciate della ferrovia, e i ricchi nelle antiche magioni nobiliari e patrizie. Poi negli anni Settanta e Ottanta tutto si mescola e si agglutina.
Pier Vittorio Tondelli racconta nel 1980 in Altri libertini il centro in periferia: Posto ristoro nella stazione di Reggio Emilia frequentata da tossici e marchettari, freak e puttane. Oggi intorno a quell’edificio limitrofo al centro storico ci sono gli immigrati di colore, i marocchini, i senegalesi, i cinesi. La nuova stazione, capolavoro di Calatrava, onda bianca che fluttua nel vuoto, è sorta lontano, tra il verde dei campi e i filari delle viti, parallela alla Autostrada del Sole. Vi passano i treni superrapidi che uniscono come una metropolitana Milano e Roma, rendendo tutto lo spazio in mezzo un’enorme e piacevole periferia. L’elegante stazione Mediopadana, come si chiama, è circondata da un grande piazzale di asfalto che raccoglie le automobili di due o tre regioni all’intorno. Cos’è oggi periferia e cosa non lo è?, viene da domandarsi. Solo se il centro esiste, scrive Paola Viganò, “il problema di essere esclusi si pone”. La periferia è perciò dovunque, ed è pronta in ogni istante a riemergere. La periferia c’è dove lo spazio si gerarchizza, dove è isotropo. Quando perde la sua continuità, appena lo spazio abitativo non garantisce più accessibilità, possibilità di scelta, ovvero i diritti minimi della cittadinanza, la periferia risorge.
A Genova come a Napoli, ma anche in tante piccole e medie città del nord, la periferia si trova in centro. Tutto è esploso nello spazio contemporaneo, multifunzionale e molecolare. Nella primavera del 1986 Gianni Celati attraversa la Pianura padana. Pochi giorni prima in Ucraina è esplosa la centrale nucleare di Chernobyl. All’occhio dello scrittore le campagne che incontra appaiono del tutto simili alle periferie urbane: spazi abbandonati, vuoti, devastati. Ai campi coltivati a mais si alternano capannoni industriali, vecchie cascine in rovina, discoteche, villette “geometrili” con nanetti e salice piangente. L’immenso paesaggio delle case a schiera rende squallida la pianura irrigua. Celati lo racconterà tre anni dopo in Verso la foce, pubblicando parte dei taccuini che ha riempito nel suo viaggio a piedi e su vecchie corriere: una valle slabbrata e senza confini a est come a ovest, ritratto della postmodernità incipiente. Come definire questo paesaggio postatomico? Periferia o campagna? Trenta anni dopo Filippo Minelli e i suoi amici fotografi forniranno un ritratto visivo di questo medesimo luogo in Padania classic, l’Atlante dei Classici Padani (Krisis Publishing) che annovera villaggi artigiani, svincoli autostradali, condomini, hangar, silos, viadotti, che si alternano a filari di viti, pioppi, distese di granoturco. Quasi una catastrofe avvenuta in modo silenzioso nell’arco di settant’anni, senza alcun progetto, senza alcuna intenzione, per caso.
L’aborrita epoca postmoderna, raccontata da Celati a metà degli anni Ottanta, sarebbe cominciata in modo emblematico con un episodio avvenuto nel 1972. Nel 1955 un architetto, Minoru Yamasaki, lo stesso che ha progettato e costruito lo sfortunato World Trade Center, vince il concorso per il quartiere operaio di Pruitt-Igoe a Saint Louis: enormi alveari di acciaio, vetro e cemento, separati da aperti spazi di prato verde, racconta lo scrittore Tom Wolfe in Maledetti architetti. Vi vanno ad abitare ex contadini inurbati di recente. Grandi ballatoi coperti segnano l’immenso alveare urbano. In poco tempo si comprende che il progetto non funziona: la gente ci vive male in questi spazi. Il municipio della città spende milioni di dollari in ricerche, riunioni, discussioni, per cercare un rimedio. Nel 1971 viene convocata un’assemblea di tutti gli inquilini: si chiede a loro cosa fare. La prima volta, scrive Wolfe, che nella storia dei quartieri popolari si ascolta il parere dei clienti. La risposta è una sola: Blow it… up! Blow it… up! Fatelo saltare in aria, buttatelo giù! L’anno seguente i tre caseggiati centrali di Pruitt-Igoe sono demoliti con la dinamite. Sarà questo il destino dei casermoni del Corviale, delle Vele di Scampia, del quartiere Zen di Palermo? L’architettura ha fatto il suo tempo ed è venuto il momento di tornare all’urbanistica. Nel suo classico La città nella storia (1961) Lewis Mumford sintetizzava nel capitolo finale lo scopo della città: “La grande missione della città consiste nel favorire la partecipazione consapevole dell’uomo al processo cosmico e storico”. Due aggettivi impegnativi. Sarà di nuovo così?