la Repubblica, 26 giugno 2016
Torino e quei pezzi di piccola borghesia che sono tornati poveri come i genitori. Come negli anni 80
L’insegna è anonima: “Centro di ascolto Due Tuniche”. È scritta sulla vetrina di un negozio con i vetri oscurati, alla periferia nord di Torino. Se non ci fosse il logo dell’Arcidiocesi potrebbe tranquillamente essere il punto di incontro di una chiesa evangelica. Ma chi supera la porta con le tende verdi non va solo per avere il nutrimento spirituale: «Sempre più spesso», racconta Vally Falchi, «arrivano professionisti disoccupati, padri separati che hanno perso lavoro e famiglia insieme. Ci chiedono un aiuto, anche momentaneo. Dal pagamento delle bollette alla rata dell’affitto».
Non tutto è buio nelle periferie torinesi che si sono ribellate con il voto del 19 giugno. Anche negli anni difficili, quando la Torino del turismo e della movida sembrava lontana anni luce dalle case della Falchera, quando la crisi aggrediva i redditi e anche gli affetti delle persone, c’è chi ha continuato a lavorare per ricucire lo strappo sociale che si stava creando in città. Vally racconta che «spesso è stato più difficile aiutare i meno poveri. Persone che non sono abituate a fare i conti con l’assenza di reddito». Anche il povero è un mestiere. Bisogna sapere a chi rivolgersi, dove andare a rimediare un pasto, come trovare un luogo per dormire. Negli anni della crisi Torino e la sua cintura hanno perso due milioni di pil al giorno. «Nel nostro negozio», spiega Vally, «è passata soprattutto la città che è caduta improvvisamente in basso». La Diocesi di Torino ha aperto tre anni fa un alloggio, la «Casa di Nonno Mario», per consentire ai padri separati di avere un luogo in cui incontrare i figli. «Spesso», ricordano alla Caritas, «la povertà ha costretto i genitori a incontrare i loro bambini in auto o al bar». Pezzi di piccola borghesia che sono tornati poveri come i genitori e i nonni emigrati a Torino negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta. Torinesi impoveriti che hanno timore a far conoscere la loro nuova condizione. «In questi anni», osserva il sociologo Roberto Cardaci, «abbiamo assistito a un fenomeno che ricorda quel che accadde dopo la cassa integrazione alla Fiat nel 1980. Quando la vergogna di raccontare agli amici e ai familiari di aver perso il lavoro spinse molti a continuare a svegliarsi presto al mattino e mantenere gli stessi orari della giornata come se dovessero ancora lavorare in fabbrica. Oggi capita che i torinesi impoveriti continuino a comportarsi come se avessero ancora il reddito di un tempo. Mantengono, finché riescono, la casa in un quartiere benestante e poi fanno la spesa nei discount». La vergogna dei nuovi poveri è uno degli ostacoli da superare. Per questo le “Due tuniche” è un negozio il più possibile anonimo.
Vally è una delle donne che hanno aiutato gli abitanti delle periferie torinesi a sopravvivere. Come Patrizia Alfano, presidente dell’Uisp, l’associazione sportiva che si occupa dei campetti di periferia: «Lo sport è la prima forma di integrazione tra le classi sociali e con il resto della città». L’Uisp, insieme ad altre tre associazioni, organizza migliaia di persone intorno al Centro Massari, una delle poche eredità olimpiche di Torino Nord, a Borgo Vittoria, nel cuore del disagio sociale torinese. «Con la ristrutturazione del Palaghiaccio per i giochi del 2006», racconta Patrizia, «uno sport considerato da ricchi come il pattinaggio è diventato l’occasione di incontro anche per chi abita in questi quartieri». L’operazione più difficile l’ha condotta Fatima, vent’anni, marocchina di seconda generazione: «Di seconda generazione? Che cosa vuol dire? Non vuol dire nulla. Io sono italiana. Sono arrivata a Torino che avevo un anno, vivo in questa città da diciannove e, se proprio vogliamo dirla tutta, non sono mai andata in Marocco. Qualcuno definirebbe i figli degli immigrati dal Sud “calabresi di seconda generazione”?». D’accordo. Fatima è stata la promotrice della piscina femminile: «Abbiamo ricavato uno spazio, la domenica mattina, per aprire la piscina comunale solo alle donne». Il motivo è evidente: consentire anche alle donne musulmane, che per religione non possono scoprirsi di fronte agli uomini, di anda- re a nuotare. «All’inizio non è stato facile», ricorda Patrizia. «C’è stata polemica perché le prime ragazze musulmane non si fidavano ed entravano in piscina con il costume lungo, una specie di gonna in acrilico. Le donne non musulmane hanno protestato. Alcune di loro venivano dal femminismo e accusavano le marocchine di sottomettersi al dominio di una religione maschilista». C’è voluta tutta la capacità di mediazione di Fatima per superare l’ostacolo: «Ho spiegato a tutte che quello spazio della domenica mattina era una possibilità. Finalmente si poteva andare a nuotare senza preoccuparci del giudizio degli uomini sul nostro corpo».
Servono storie come quella di Fatima a ricucire lo strappo sociale tra il centro e le periferie della città? Lei ha l’ottimismo dei vent’anni: «Io non capisco questa storia dello strappo. Certo, in questo quartiere abbiamo meno soldi dei torinesi che stanno alla Crocetta o in collina. Ma, in fondo, c’è tutto quel che ci serve. Non abbiamo bisogno di andare in centro. Mia madre non ci va mai. Io sì perché studio all’università. Ormai Torino vive con tanti centri nei diversi quartieri. In piazza Castello si va solo per i bei negozi e per i bar con gli stucchi». Un racconto sicuramente controcorrente che può spiegare in modo originale la rivolta delle periferie torinesi: con la crisi la città si è trasformata lentamente in una federazione di quartieri. È diminuita la mobilità tra una zona e l’altra, ciascuno si è chiuso nel suo mondo. Clamoroso è il caso della Falchera, città satellite di ottomila abitanti oltre il confine della tangenziale. Per decenni esempio di isolamento è ora collegata da un tram veloce che in venti minuti consente di arrivare in centro.Ma continua a vivere come luogo separato.
Nella lacerazione della crisi è stato più facile tenere insieme le periferie a sud della città. Perché da più tempo nei quartieri intorno alla Fiat Mirafiori si è investito sul recupero delle case e sui centri di aggregazione. Qui si sono concentrati i finanziamenti legati alle Olimpiadi. La storia di Bruno Manghi, sociologo, ex sindacalista oggi a capo della Fondazione Mirafiori, è la storia di una nemesi storica: «Sono uno di quelli che ha conosciuto prima la fabbrica e poi il quartiere», scherza l’ex segretario della Cisl di Torino. La Fondazione Mirafiori, finanziata principalmente dalla Compagnia di San Paolo, coordina in realtà il lavoro di molte associazioni. Come “Alloggiami”: «Non c’è solo lo strappo tra centro e periferia da ricucire, c’è anche quello tra generazioni: i quartieri operai di un tempo sono diventati quartieri di persone anziane e sole», spiega Manghi. “Alloggiami” è l’associazione che offre ai pensionati di Mirafiori la possibilità di ospitare in casa uno studente universitario: oggi sono centotrenta i ragazzi provenienti quasi sempre dall’estero per studiare al Politecnico e che hanno trovato casa nel vecchio borgo operaio. Tecla è la donna che ha avuto l’idea: «Ho un bed and breakfast. Una mattina uno studente universitario birmano mi ha chiesto se conoscevo qualcuno che avesse una stanza da affittare. Ho trovato una soluzione per lui e ho riflettuto sul fatto che per uno studente straniero Mirafiori può essere una buona zona dove trovare una sitemazione. Oggi i centotrenta ragazzi che abitano nel quartiere hanno portato un’aria di vitalità. Chi ha vent’anni si preoccupa se i giardini sono in ordine, se i collegamenti con il centro sono efficenti. Si dà da fare più degli anziani. Creare quest’aria nuova è in fondo il principale scopo della nostra associazione». “Alloggiami” non è l’unica attività sostenuta dalla Fondazione: «Le associazioni del quartiere», racconta Manghi, «sono molto attive. C’è quella degli ex dipendenti della Croce verde che si occupano dell’assistenza agli anziani, ci sono i dentisti che offrono visite gratuite ai bambini. C’è una parrocchia come quella di San Barnaba che ha saputo mantenere aperto l’unico cinema del quartiere e che si spende molto per l’aggregazione sociale».
Perché dunque, nonostante tutte queste iniziative, nelle periferie a nord e sud della città, il disagio è cresciuto anche a Torino? Elide Tisi, assessore all’assistenza della giunta Fassino, si deve ancora riprendere dalla sconfitta elettorale. Spiega: «Abbiamo fatto il possibile per ricucire la città con le scarse risorse che avevamo a disposizione. Purtroppo la crisi ha finito per ridurci i fondi proprio quando servivano di più. Ma siamo l’unica metropoli d’Italia ad aver siglato un accordo con le associazioni dei proprietari di case per far fronte all’emergenza degli alloggi». Che cosa è mancato? Il sociologo Marco Revelli sostiene che lo scollamento è stato prima culturale che economico: «È mancata la narrazione delle periferie. Nel racconto della città fatto dalla giunta di centrosinistra quelle zone non sono mai entrate. E così si sono vendicate».