Corriere della Sera, 26 giugno 2016
Putin e la religione
A cena con degli amici, abbiamo parlato di Putin e della «sua» Russia. C’era chi affermava che la sua estrazione comunista lo fa sempre ragionare con questa visione ben piantata in testa; chi invece (come il sottoscritto) sosteneva che gli ideali della internazionale socialista/comunista lui li ha abbandonati da tempo, abbracciando piuttosto un’impronta che chiamerei nazionalista/fascista. I sostenitori delle due tesi sono stati concordi nel chiedere a lei un parere dirimente.
Iginio Zanini
studioalfaigi@alice.it
Caro Zanini,
Non credo che Vladimir Putin rimpianga il regime comunista. Mi sembra troppo realista per sognare la restaurazione di un sistema defunto. Penso piuttosto che il presidente russo sia dominato da alcune preoccupazioni. In primo luogo conosce i punti deboli del suo Paese: un territorio immenso, privo di forti frontiere naturali; una vasta costellazione di gruppi etnici e religiosi; molte spinte secessioniste che riappaiono puntualmente ogniqualvolta il potere centrale lascia intravedere segni di debolezza. In secondo luogo Putin è afflitto da una sindrome storicamente radicata nella classe dirigente russa: la convinzione che le fragilità nazionali possano essere sfruttate da nemici vicini e lontani per mettere in discussione l’unità nazionale e la centralità dello Stato. L’allargamento della Nato a una grande parte dell’Europa Centro-Orientale e le sanzioni decretate dalle democrazie occidentali dopo l’annessione della Crimea hanno rafforzato questi timori.
Come tutti coloro che hanno governato la Russia dalle mura del Cremlino, Putin è convinto che lo Stato russo, per continuare ad esistere, abbia bisogno di una giustificazione ideologica e morale. Questa giustificazione è stata per alcuni secoli politica e religiosa. La Russia si considerava legittima erede dell’Impero bizantino, distrutto dagli Ottomani nel 1453, e custode della cristianità ortodossa. In questa prospettiva Mosca era, dopo la Roma sul Tevere e quella sul Bosforo, la «terza Roma». Più recentemente, dopo la Rivoluzione d’ottobre, il comunismo ha dato allo Stato russo il sentimento di una missione internazionale.
Putin ha dovuto adattarsi ai tempi. Sa che il comunismo, sconfitto dalla storia, non può conferire alcuna legittimità allo Stato russo, ma crede che questa legittimità possa derivare dalla vittoria dell’Urss nella Seconda guerra mondiale. È questa la ragione per cui il presidente russo non può rompere definitivamente con il passato comunista del Paese. Stalin non è soltanto il feroce assassino di alcuni milioni di uomini e donne. È anche il vincitore di Stalingrado, di Kursk, di Berlino.
L’altro pilastro ideologico su cui poggia lo Stato di Putin è l’Ortodossia. Il tenente colonnello del Kgb ha ricreato con il clero russo quel rapporto che a Costantinopoli, durante l’era imperiale, veniva definito «sinfonia». La Chiesa moscovita è ancora, come nel passato pre-sovietico, chiesa di Stato, anima del Paese, braccio spirituale di tutte le Russie, partner insostituibile dei poteri pubblici. Putin ha conferito credibilità a questo connubio comportandosi come un devoto credente: visita i santuari, si fa il segno della croce, rende omaggio alle icone, si confessa e si comunica. In un bel saggio su «La Russia del terzo millennio» pubblicato da Jaca Book, Stefano Caprio scrive che alla domanda di un giornalista televisivo americano sui suoi sentimenti religiosi, Putin ha risposto che sua madre, alla vigilia di un viaggio in Israele, gli dette una piccola croce perché la facesse benedire al Santo Sepolcro. Decise di portarla sempre con sé quando la sua dacia andò in fiamme e la croce riapparve, intatta, fra le macerie fumanti della casa distrutta.