Corriere della Sera, 26 giugno 2016
La malinconia della Roma degli gli anni Cinquanta e Sessanta nei dipinti di Giosetta Fioroni
Raffinata, seducente, colta, interessata al teatro e alla letteratura, alla pittura e al dialogo internazionale ecco Giosetta Fioroni, protagonista, quasi direi attrice, sulla scena romana. E poi la vicenda, a Roma, del Caffè Rosati a Piazza del Popolo, della Galleria La Tartaruga, degli artisti che lì si incontrano e che sono fra i maggiori di questi anni, a cominciare da Mario Schifano e da Franco Angeli, insomma una storia che diventa quella di una «scuola».
In quel contesto la vicenda della pittrice appare emblematica e culmina con la mostra del gruppo dei pittori romani alla Biennale di Venezia del 1964. Certo, la fortuna critica della Fioroni è eccezionale, da Cesare Vivaldi a Gillo Dorfles, da Filiberto Menna a Tommaso Trini, da Maurizio Calvesi a Pierre Restany, insomma le voci più attente, allora, sulla scena italiana e non solo. Ma la mostra ( Giosetta Fioroni. Roma anni ’60, a cura di Marco Meneguzzo, Piero Mascetti ed Elettra Bottazzi, al Museo Marca di Catanzaro fino al 31 agosto) propone anche un discorso diverso. L’aver illustrato, con opere importanti, la prima fase dell’artista, quella degli anni Cinquanta e poi del soggiorno a Parigi (1959-1962), è un contributo notevole al dibattito, altrimenti fissato soltanto sugli «argenti», i testi più noti della pittrice. E proprio lei, sulla Piazza, sul caffè Rosati e il resto, scrive: «Più interessante mi sembra ricordare qualcosa di meno identificabile, qualcosa che appariva nei loro quadri (dei pittori del gruppo romano, ndr ) e che era stranamente collegata con la luce, l’atmosfera, l’obelisco... la geometria della piazza. Qualcosa di fortemente malinconico, in fondo, che riguardava Roma e i sentimenti di queste persone».
Malinconia, dunque, una chiave forse per capire la Fioroni, non la tensione di Schifano, non l’angoscia di Angeli, o quella di Tano Festa. Ma parlare di geometria, parlare di atmosfera, parlare di obelisco vuol dire storia.
Roma, prima, negli anni Cinquanta, e lo spiegava bene Cesare Vivaldi nel 1963 su «Il Verri», è la capitale europea più legata all’Espressionismo astratto americano, c’è Palma Bucarelli con la mostra di Pollock ma, prima, Rauschenberg che va in studio da Burri, e poi c’è Kline, e il gesto, la violenza del gesto, e una nuova idea della pittura anche come grafia, come scrittura, che spiega la ricerca di Cy Twombly trasferitosi dagli Stati Uniti a Roma.
Sta qui, in questo dialogo con la ricerca americana piuttosto che con la parigina, la novità dei dipinti di fine anni Cinquanta della pittrice che poi decide uno scarto, opta per una pittura in parte diversa, più attenta forse proprio a Jim Dine e a Twombly e lei stessa legge, nei propri quadri, «segni sempre più riconoscibili, le labbra, i cuori, il telefono, i segni che delimitano l’”interno familiare”».
Sono i quadri attorno al 1960, tutti costruiti con una capacità di gestire lo spazio, con una forza compositiva rari. Torniamo a «interno familiare» e proprio la pittrice spiega: «Cerco la trascrizione di un diario di emozioni attraverso il ricordo, dal più antico, infantile, adolescenziale, fino allo stato presente. Traducendo questo in un montaggio di simboli: dai più semplici, quasi geometrici… alla continua, nevrotica esperienza con le assillanti immagini della città, la strada, il viaggio, il cinema, la folla» (1961).
Siamo al 1963-1964, a un passaggio determinante. Mentre Schifano propone lo schermo colante del Botticelli (1962) ma anche l’omaggio a Leonardo (1963) la pittrice punta a una dissociazione dell’immagine in frammenti, come un collage di memorie, e riprende figure, spunti, immagini dalla foto di cronaca ma anche dalla propria storia privata. Le sue sono sequenze, racconti, dialogo con la ricerca sperimentale del cinema ma anche col nouveau roman e con l’illustrazione: disegna anche un nuovissimo racconto a fumetti con testo di Nanni Balestrini (1965). Siamo alle soglie del periodo più noto dell’artista, della riduzione delle immagini al contorno e, il colore, a un grigio-argento che evocherebbe, lo hanno scritto e ripetuto, l’argento ossidato delle foto da cui l’artista parte.
Ma c’è forse un’altra chiave: la pittrice racconta la propria memoria infantile, compone spazi allusivi, come Villa R, ovviamente omaggio a un noto dipinto di Paul Klee, ma dipinge anche moltiplicati omaggi a Botticelli, a Piero di Cosimo, a Simone Martini, sfaldando le forme, ritagliandole come in un Giacomo Balla rivisitato. Eppure, assieme a queste opere più evidenti, ne troviamo altre, contemplate, solitarie, dove affiorano memorie di fiabe come La bella addormentata (1969-70), che vanno di pari passo con autobiografiche figure isolate, ombre, argentei profili persi nel vuoto di una tela bianca. Solitudine del fare arte, e del ricordare.