La Stampa, 26 giugno 2016
Boris Johnson non ha idea di cosa fare ora
«Guardate il volto di Johnson, sembra malato, non ha idea di come riparare il disastro che ha creato». Il commento post elettorale di Alastair Campbell, spin doctor ai tempi di Blair, è la migliore istantanea sullo stato d’animo di 16 milioni di britannici. Spaesati, rabbiosi, incerti, pentiti. Che si fa?
Tocca a Boris Johnson, secondo i più, dare una risposta e traghettare il Paese fuori dal caos in un lido di prosperità. Perché questa è la promessa solenne dei Brexiteers. L’ex sindaco vorrebbe elezioni anticipate nel 2017. I sondaggi – maneggiarli con cura dopo la serie di flop è un imperativo morale – dicono che il 50% degli elettori si sente vicino ai conservatori. Simon Usherwood, studioso del Surrey di euroscetticismo e mondo Tory, spiega che per Boris la corsa alla leadership non sarà semplice. «È pragmatico, molto popolare, grande comunicatore, ma non sono queste le doti fondamentali in un premier». Dovrà muoversi con cautela, ricompattare il partito, tenere insieme i 129 deputati pro-Brexit con la maggioranza. Un consigliere Tory sostiene che l’agenda di Johnson «non è così diversa da quella di Cameron». I due sono della stessa generazione, 52 anni Boris, 50 David, e sono arrivati al Partito per vie diverse, ma hanno una visione internazionale e moderna dell’essere conservatori.
«Non ho intenzione di farmi una mazzo così e consegnare il pacchetto del divorzio con la Ue a chi verrà dopo di me», sarebbe stato lo sfogo raccolto dall’Independent del premier dopo le dimissioni. Cameron non vuole sia Johnson il nuovo inquilino di Downing Street. Vorrebbe Theresa May, ministro dell’Interno, bravissima, tosta, euroscettica ma non schierata con i Leave, un mix ideale. Peccato sia priva di empatia.
Domani il Comitato 1922, i saggi dei Tory, si riunirà per preparare il cambio di leadership. Nella storia Tory, i favoriti del primo momento si sono quasi sempre schiantati prima della fine. Johnson, ambizioso e che sogna da sempre la guida del Partito, per questo si muove con cautela. Per questo ai vertici Ue ha detto che bisogna fare le cose con calma. Non tutti, fra i suoi, la pensano così. Il capo del comitato Leave, Matthew Elliott, ad esempio vorrebbe già «trattative informali per l’uscita» in attesa di far scattare l’articolo 50. John Redwood, uno dei cento conservatori più influenti del Paese secondo il Telegraph, dice: «Il Parlamento deve dichiarare formalmente la riconquista della sovranità». Johnson leader? «Nessuno si è candidato ancora, vediamo», ci dice rimettendo in fila le sue priorità. La carriera di Boris non è tra queste.
Ciò che Redwood liquida come una sciocchezza, è l’ipotesi di un secondo referendum che cancelli la Brexit. Una petizione on line ha raccolto nel giro di poche ore 2 milioni di firme, con picchi di tremila adesioni al minuto e sito in tilt. Chiede che un referendum sia valido se uno dei due fronti prende il 60% dei consensi con almeno il 75% di affluenza. Bastano 100mila firme perché sia discusso a Westminster. Non passerà, ma è un indicatore della schizofrenia in cui si trova il Paese. Le firme vengono dai 3-4 distretti (Londra, Liverpool, le città universitarie) già schierate per il Remain, ma questo slancio associato a un’altra richiesta, quella del sindaco di Londra, Sadiq Khan, di partecipare in quanto «città internazionale» ai negoziati con la Ue sono indicativi. Khan vorrebbe un referendum sullo status di Londra che ne sancisca una posizione esclusiva nel mercato unico Ue. In un clima di isteria c’è chi persino lancia il movimento Regrexit, torniamo indietro. Molti pro-Leave, almeno leggendo il forum dei lettori sul Daily Mail, sembrano scoprire che l’uscita dalla Ue qualche scossone lo provoca. Hanno chiesto indietro le schede per correggere il voto. Intanto Corbyn, leader laburista ammaccato, tira dritto. Ieri ha tenuto un discorso sul futuro del Labour parlando fra gli stand colorati del Gay Pride dove è stato anche contestato da due attivisti. «Dobbiamo recuperare voti fra la working class arrabbiata», quella che ha fatto vincere Brexit. Nessun accenno alle sue dimissioni chieste da due deputati. Ma il movimento contro di lui cresce. «Non vinceremo mai le elezioni con Jeremy», conferma quanto tutti sanno un Lord laburista. Domani il Partito ne discuterà.