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 2016  giugno 25 Sabato calendario

Mariangela D’Abbraccio in cerca di un’oasi

Molti s’aspetterebbero che l’abitazione di un’attrice come Mariangela D’Abbraccio debba più o meno corrispondere a un appartamento metropolitano pieno di fotografie, di libri, di riviste, di sceneggiature, di testi, di oggettistica e di ricordi professionali.
E invece andandola a trovare ci avviciniamo, dopo una lunga strada sterrata piena di curve, salite e discese, incontrando ogni tanto pecore e capre, a un casolare ristrutturato in mezzo a una macchia di altissimi pini di trenta metri.
E quando si accede al suo comprensorio ingombro di rose rosse e bianche (dopo due cancelli, per tutelare e recintare gli animali di casa), superando un esterno di pietra rustica, e una barriera vivace di otto cani, si mette finalmente piede in un lungo vialetto con molti ulivi ai lati, e si giunge alla casa, su due piani, dove i colpi d’occhio del visitatore si fermeranno su un salone con tv d’epoca, una radio anni ‘40, cose mai moderne, arredo tutto di legno, grande camino antiquato, mobili vecchi. Il risultato è una casa morbida piena di curve. «Adatta a me. Senza architetture di moda. Vivo qui una media di tre mesi pieni all’anno, altrimenti vado in giro continuamente per lavoro».
Anche l’aspetto di lei, in quest’abitazione, non rivela i toni studiati di una donna di spettacolo. Diversissima da come la si vede e la si incontra ufficialmente, e da come la si trova raffigurata in molte immagini di cinema e di teatro, sta davanti a noi con addosso pantaloni senza forma. E se quasi tutti hanno l’idea di una D’Abbraccio sempre alle prese con problemi di palcoscenico o di set, fedele a un’immagine sofisticata della propria persona, noi la troviamo senza trucco, coi capelli spettinati, senza la preoccupazione del dover apparire. «Una doppia natura mi piace. Anche se sono napoletana e nata sul mare, io sono di indole di campagna, sento un rapporto stretto con la terra, che ti dà forza, ti porta a contatto con la realtà vera, con gli animali. Qui mi occupo di tutto, a volte con l’aiuto di altre persone. Se sono in tournée, e penso a un albero che ha bisogno di qualcosa, mando istruzioni, concordo interventi. Il mio pensiero soffre dei problemi di questo posto, e rifiorisce, sulla base di cicli ambientali». Qualche esempio di pensieri di stagione? «S’alternano periodi violenti di freddo e di caldo, ma la natura ce la fa, ti dà il senso della vita. Molte cose crescono insieme a me. Sono legata a tutto. La mia famiglia è costituita da tutte le creature viventi che entrano a far parte della comunità, dormono qui, si riproducono. Condivido questa visione con mio marito. Dormo in camera con sette cani, (un setter irlandese, un lupo, un pastore belga, una Yorkshire trovatella, un lagotto romagnolo, un Jack Russel, un bretone bastardino), e sono arrivata ad averne in casa anche dodici. Uno, un lupo canadese bianco, era in scena con me in Anna dei miracoli. O li trovo per strada, o me li fanno trovare. E pensare che in passato ho avuto anche paura dei cani. Il merito è di mio marito». Poi c’è l’amore che la D’Abbraccio riversa sui prodotti della terra. «Sì. Mele, pere, ciliegie, mele cotogne per marmellate, pesche, cachi, uva fragola. Da quindici anni sono vegetariana. M’è successo da quando mi sono accostata di persona a un maiale, scorgendogli occhi quasi umani, avvertendone il puzzo della carne: il mio corpo ha deciso per me, basta».
Nessuno potrebbe immaginare bene a fondo le origini, il nomadismo, l’inquietudine della sua famiglia. «Io sono discendente di artisti. Mio nonno era primo violino al San Carlo, mia nonna pittrice, mio zio musicista, mia madre insegnò recitazione. Però ci siamo rivelate persone concrete, dedite a una vita avventurosa e randagia. Io quindicenne con le mie due sorelle ci siamo dovute arrangiare da sole, perché mia madre (tra me e lei ci sono solo 17 anni di differenza) scappava. Io sono nata a Secondigliano, e mio nonno la voleva chiudere in collegio quando la scoprì incinta, mamma voleva fuggire via, e più tardi mio padre la sposò, e riconobbe tutte e tre noi sorelle, ma in seguito mia madre ci ha riservato altri fratelli, da più genitori: due sono francesi di padre france- se, e un altro è di padre italiano. Noi ci vediamo tanto, i padri si vedono poco, salvo a trovarsi d’accordo contro mia madre, donna di forte personalità. Io, che ho compiuto 54 anni da qualche giorno, ora ho discreti rapporti con lei, anche se abbiamo caratteri opposti».
Ma tra consanguinei dediti alla creatività quasi più nella vita che nel lavoro, viene da chiedersi attraverso quale crescita sia maturata l’inclinazione artistica di Mariangela rivelatasi già nei primi anni ‘80, ora prossima protagonista con Geppy Gleijeses di Filumena Marturano di Eduardo De Filippo che, con la regia di Liliana Cavani, debutterà al Festival di Spoleto. «Io mi sono fatta da sola. Mio padre, più ordinato, stabilitosi in Sardegna, non l’ho tanto visto. Il teatro mi ha salvato, dopo un’infanzia solitaria, un trauma dovuto al forcipe, e sintomi del piccolo male dell’epilessia dai 6 ai 18 anni, con conseguente sonno e poche frequentazioni sociali (io non prendo il sole, non bevo, non so fumare, niente caffè, e da giovane sembravo una vecchietta). La scossa me la dette Eduardo, mi vide, mi invitò a passare a casa sua e mi chiese di entrare nella compagnia di Luca per Ditegli sempre di sì e poi Tre cazune fortunate. Il palcoscenico mi dette disciplina, consapevolezza del mondo, e confidenza col prossimo. Poi mi scritturò e mi formò Albertazzi, che in Dannunziana mi volle nuda in scena, come musa dell’artista, un lavoro vietato ai minori che segnò anche l’inizio di un rapporto personale durato due anni. Con lui sono tornata sotto i riflettori per un Borges e Piazzolla» (la conversazione è avvenuta prima della scomparsa dell’attore ndr). Segue un interregno con regie di Calenda, Mattolini, e arriva Patroni Griffi a volerla come Figliastra in Sei personaggi. Poi va per la sua strada, e nella sua strada, pubblicamente e privatamente, c’è il regista Francesco Tavassi, con un repertorio dove figura Dacia Maraini. Una rentrée eduardiana c’è per Napoli milionaria diretta da Francesco Rosi, con Luca. «I ruoli popolari li amo, quelli delle donne del popolo che hanno pochi strumenti per difendersi. E di recente canto anche, faccio dischi e concerti». Ora Tavassi è il suo regista- marito… «L’ho conosciuto in uno spettacolo, ma da napoletani ci conoscevamo. Io avevo progetti, lui pure, e li condividiamo». Progetti di viaggi. «La nostra vecchia Europa, comprese Parigi e Londra (è lì che ora sta mia madre). New York non l’ho amata, stai in un container. E vorrei andare in Oriente». Perché questa casa di campagna in Umbria? «Perché è terra ancora vera, vergine, dove senti una storia antica, e vivi non lontano da Roma». La presenza fisica l’ha aiutata o ha creato su di lei facili giudizi? «Scegliendo il teatro mi sono salvata, altrimenti la bellezza in Italia è penalizzata. Dicono: è bella e allora sarà cretina (non l’ho subita così, per fortuna). Certo, io ho avuto fin da giovane un corpo ingombrante. Subito donna, e non attrice giovane». Questa Filumena? «La vera difficoltà sta nel non essere condizionati da nulla, senza tradire Eduardo. Ah, lui: in un’aula piena di persone mi disse “lei è un’attrice, venga da me e Luca domani”. A me che avevo appena strappato un contratto discografico, per disco music, col nostro gruppo di cinque ragazze “Camomilla”, assistite da Fiorella Mannoia. E fu Pino Daniele che mi spinse ad andare in quell’aula per farmi vedere da Eduardo…». E noi finiamo di parlare, perché deve innaffiare la terra, dice.