Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  giugno 24 Venerdì calendario

Perché è giusto sperare di battere la Spagna, ma non crederlo davvero

C’è una strana convinzione nell’aria, che con l’Irlanda abbia perso la squadra B combinando disastri, ma che adesso rimetteremo i birilli a posto con la squadra A. Spero sia vero, ma non ne sono affatto sicuro. Questa resta l’Italia più fragile dagli Anni 50, figlia di un movimento ormai mediamente povero e incapace di produrre grandi giocatori. Barzagli, Buffon, gli stessi Bonucci e Chiellini vengono da altre generazioni, giocavano già quando l’Italia tornò campione del mondo nel 2006. Il resto è buon professionismo e forte propensione tattica, ma qualità poca. È giusto sperare di battere la Spagna, ma non crederlo davvero. La nostra unica forza è tutta in Conte, nel suo fondamentalismo, nella sua capacità di rendere organizzata e ubbidiente una squadra normale. E non c’era un’ubbidienza che bastasse con giocatori in campo che da mesi non giocano con regolarità. Non ha fatto una gran scelta di gruppo Conte mandando in campo tutti, ha finito anzi per creare un muro tra metà Nazionale e l’altra. Credo lo abbia fatto volontariamente, per stringere il fortino e limitare in modo definitivo le alternative. Un lungo ritiro porta a questi eccessi, stare da soli produce i sintomi di un assedio, si scelgono solo i fedelissimi. Guardate l’imbarazzo che produce Insigne per aver giocato 10 minuti, tutti lo vorrebbero in campo, mentre Conte ha la sua squadra esatta in testa. Gli ha dato 10 minuti proprio per limitarlo. Il suo spunto, il tiro sul palo, devono essergli sembrati quasi insubordinazione. Si entra d’altra parte nella fase più italiana che ci sia, quella della partita drammatica contro un avversario più forte. L’assedio, appunto, un tempo senza ritorno. Tante volte ci è andata bene, questa buona abitudine spinge anzi più avanti l’ottimismo anche stavolta. È una cultura della disperazione, il piccolo eroismo di un giorno contro la volontà di potenza del nemico. Come Sordi e Gassman nella Grande guerra, solo che alla fine anche loro muoiono. No, non c’è un’Italia bella e una brutta. C’è un pallore costante che può però diventare un colore. L’impresa in fondo è solo dei deboli.