Corriere della Sera, 24 giugno 2016
A pochi giorni da quel 5 giugno di 41 anni fa, quando l’Inghilterra disse «Sì» alla Comunità europea
Pubblichiamo l’editoriale di Alberto Ronchey uscito sulla prima pagina del «Corriere» del 31 maggio 1975: mancavano pochi giorni al referendum del 5 giugno sulla permanenza di Londra nella Comunità europea.
Con il referendum del 5 giugno, l’Inghilterra deve convalidare o annullare l’adesione alla Comunità europea mentre subisce la crisi peggiore in trent’anni. Per l’europeismo inglese, l’Europa è tutto: garanzia contro l’isolamento fra i grandi mercati, scossa competitiva, pedagogia che impone il ritorno a una disciplina industriale. Per l’antieuropeismo, che unisce nazionalisti insulari e sinistra laburista, l’Europa è nulla o peggio: terra di Machiavelli e Torquemada, burocrazia di Bruxelles, promiscuità che impone mezzo milione di disoccupati in più. Ma l’Europa in sé non è catastrofe o salvezza, la crisi inglese è altrove. «L’animale che meno ammiro – usa ripetere l’economista Samuelson – è lo struzzo, con la sua supposta propensione a seppellire la testa per non contemplare pericoli sconfortanti».
Ora è la quindicesima crisi d’inflazione-recessione inglese dal dopoguerra. In aprile-giugno, il tasso d’inflazione su base annua ha raggiunto il 40%. La sterlina ha perso il 25% rispetto alle maggiori monete europee, ma i banchieri si meravigliano perché non ha perso di più. La disoccupazione, dal marzo all’aprile di quest’anno, ha avuto il massimo balzo in ventisei anni giungendo al 4% della popolazione attiva, che per l’Inghilterra è un limite prossimo al «livello politicamente esplosivo». Il New Social Contract, stipulato nel ’73 fra laburisti e sindacati, è completamente fallito. I laburisti avevano promesso una politica favorevole alle aspirazioni dei sindacati (pensioni maggiori, tasse maggiori sui ricchi) in cambio dell’impegno a moderare la dinamica salariale (aumento dei redditi non superiore a quello della produttività). Ma tutte le guidelines, le prescrizioni di quella che doveva essere la Magna Charta della democrazia economica, sono state violate dalla rivendicazione salariale: nel ’74 la paga media oraria è aumentata del 33%, la media dei prezzi del 21, la produzione industriale del 2. Da qui l’inflazione selvaggia, con una violenta spirale prezzi-salari. A sua volta, la spirale prezzi-salari suscita la spirale inflazione-recessione. Dinanzi all’inflazione, il governo può usare le tecniche restrittive fiscali e monetarie, che tuttavia suscitano la disoccupazione. Dinanzi alla disoccupazione, il governo può espandere il deficit pubblico e la base monetaria, che tuttavia suscitano più inflazione.
Dopo il disastro dei conservatori anche il potere laburista, come l’Imperatore della favola, è nudo. Alcuni storici osservano che non pochi secoli corsero dalla Magna Charta politica ai moderni sistemi costituzionali, così non pochi secoli sarebbero necessari a perfezionare il governo della democrazia economica di massa. Ma l’Inghilterra non può aspettare. Il Wall Street Journal, analizzando le cifre, ha pubblicato un editoriale dal titolo «Goodbye, Great Britain», vero necrologio dell’Inghilterra come potenza industriale.
Già laboratorio della prima rivoluzione industriale, l’Inghilterra ha uomini di governo e studiosi agguerriti nel campo della scienza economica, una finanza sofisticata, un apparato d’informazione tecnica che va dal Financial Times all’ Economist. Eppure l’Inghilterra versa in una crisi permanente. Questa parabola dimostra in via definitiva che non c’è miracolo della scienza economica, non c’è trucco monetario capace di risolvere la questione d’una società decisa per volontà quasi plebiscitaria a consumare più di quanto produce, a spendere il 120 o il 130% del reddito nazionale.
All’origine, la crisi economica inglese presentava caratteri speciali: la perdita dell’impero e dei mercati privilegiati, il declino del carbone, dei tessili del Lancashire e della City, mentre lo sviluppo della popolazione, il pieno impiego postbellico e la propensione ai consumi accrescevano le importazioni già cospicue per un’economia povera di materie prime e d’agricoltura. Era un’economia di «trasformazione pura», che doveva importare tutto tranne il carbone e non esportava manufatti in proporzione. Fuori del Mec, l’Inghilterra era un mercato angusto, un muro tariffario la separava dall’Europa e la geografia o la storia dal Commonwealth. La sterlina era sovraesposta, poiché rimaneva la seconda valuta di riserva senza i mezzi per essere tale. Un tempo l’equilibrio della bilancia valutaria era stato garantito dai mercati protetti, dagli interessi e dividendi del capitale investito oltremare, dai noli marittimi e dai Lloyds. Ma la City, caduto l’impero, cedeva il rango a Wall Street. Quando una economia è strutturalmente deficitaria, oscilla per necessità fra inflazione e deflazione. O il pareggio degli scambi con l’estero viene ottenuto comprimendo lo sviluppo e i consumi, o l’eccesso d’importazione produce un boom inflazionistico. Nacque così il famoso stop-go, il tira e molla, ossia la politica economica e monetaria per freni e strappi a periodi alterni, mentre la bassa velocità media dello sviluppo contribuiva all’aumento dei costi.
Ora l’Inghilterra ha avuto trent’anni per compiere la conversione dall’economia dei mercati imperiali a quella competitiva. Se l’Inghilterra è nuda di materie prime tranne il vecchio carbone, se è povera d’agricoltura, altre nazioni hanno dovuto affrontare simili contraddizioni, con successo minore o maggiore, dall’Italia al Giappone. È davvero una crisi economica? La crisi è certo nell’economia, eppure nasce prima, deriva da irresistibili pressioni e distorsioni psicologiche, sociali e politiche, più che da singoli errori concettuali e tecnici di governo. In questo forse l’Inghilterra è ancora l’avanguardia più esposta dell’Occidente, come già fu l’avanguardia della prima rivoluzione industriale. Forse la parabola è per tutti.