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 2016  giugno 23 Giovedì calendario

Quanto tempo passiamo a guardare la Gioconda?

Quanto tempo ci vuole per visitare il museo più grande del mondo? Nel film “Bande à part” di Jean-Luc Godard, i tre protagonisti attraversano il Louvre in 9 minuti e 43 secondi: all’epoca – ci informa la voce narrante – la visita più veloce mai effettuata. Quella corsa ha ispirato nel tempo numerosi imitatori, fino alla recente performance dell’artista svizzero Beat Lippert, che nel 2010 ha battuto ogni record attraversando il museo francese in 9 minuti e 14 secondi. Se Lippert corresse oggi, il suo risultato potrebbe essere certificato da un esperimento recentemente portato a termine all’interno del Louvre. Utilizzando tecnologie innovative per monitorare i segnali Bluetooth e WiFi provenienti dai telefoni cellulari, un gruppo internazionale di ricercatori ha mappato il flusso dei visitatori del museo, analizzando l’esplorazione delle gallerie, i percorsi compiuti e il tempo trascorso di fronte a ogni singola opera. Lo studio propone un modo innovativo di osservare una delle collezioni più vaste al mondo: non dal punto di vista dell’opera d’arte, ma da quello del visitatore.
I risultati di questa indagine, condotta insieme al Louvre e in corso di pubblicazione su diverse riviste scientifiche (Carlo Ratti è uno degli autori, insieme a Anne Krebs e Yuji Yoshimura, responsabile della ricerca: https://arxiv. org/abs/1605.00108), rivelano che, a differenza dei personaggi di Godard, la maggior parte delle persone preferiscono vagabondare a lungo per il museo: una visita su dieci dura più di cinque ore. Relativamente agli itinerari, i visitatori percorrono per lo più una strada battuta ben precisa, che si snoda attraverso grandi capolavori quali la Gioconda di Leonardo da Vinci e la
Nike di Samotracia. Soltanto una piccola percentuale attraversa gli spazi a velocità sostenuta, concludendo la visita in meno di un’ora.
Le ultime analisi inoltre confermano che la capacità di attrazione di un determinato spazio aumenta con l’aumentare delle persone che stanno cercando di entrarvi. Così i visitatori del Louvre tendono ad attraversare velocemente le aree poco affollate, per poi fermarsi più a lungo in quelle ad alta densità di persone: se c’è qualcuno, ci sarà ben un motivo! Per la prima volta questo tratto distintivo della psicologia umana – ben noto ai buttafuori dei club di tutto il mondo … – può essere misurato in modo quantitativo. Allo stesso tempo, quando il numero di persone supera una soglia critica, le cose cambiano: anche l’attrattività di un capolavoro non riesce ad avere la meglio sui disagi provocati dall’affollamento. Lo studio dei flussi di visitatori al Louvre fa parte di un più ampio progetto di ricerca che si basa sull’analisi dei segnali emessi dai nostri dispositivi elettronici per capire meglio lo spazio in cui viviamo. Si tratta di informazioni utili per interpretare il comportamento umano in modo nuovo, a diverse scale – dal museo alla città. In un certo senso, non si tratta che di un vecchio sogno dell’urbanistica moderna. Nella seconda metà del Ventesimo secolo il grande studioso americano William H. Whyte utilizzò videocamere per analizzare il flusso di persone negli edifici e negli spazi pubblici di New York. Il suo metodo era interessante, ma lento e laborioso. Oggi, grazie alla diffu- sione dei terminali digitali, analisi di questo tipo possono diventare molto più semplici e rapide.
La conoscenza che se ne trae può essere molto importante per architetti e pianificatori urbani. Se, come si dice spesso, l’architettura è una sorta di terza pelle – dopo quella biologica e gli abiti che indossiamo – per molto tempo è stata molto rigida, quasi fosse un corsetto. Forse un domani, grazie a dati più precisi sul comportamento delle persone, l’ambiente costruito potrà adattarsi meglio alle nostre abitudini, dando vita a un’architettura flessibile, dinamica, modellata sulla vita che si svolge al suo interno e non viceversa.
Alcuni settori produttivi stanno già esplorando opportunità di questo tipo. Molti gruppi bancari stanno riducendo la propria presenza sul territorio, a seguito della sempre maggior digitalizzazione dei servizi finanziari. Per loro, conoscere i livelli di occupazione degli edifici o le dinamiche degli spostamenti urbani può consentire un impiego più efficiente del patrimonio immobiliare.
A Milano, in particolare, un istituto bancario sta cercando di ottimizzare la distribuzione delle proprie filiali per minimizzare i flussi pendolari dell’organico. Interventi di questo tipo possono avere un grande impatto sulla logistica della città – e sul benessere dei cittadini in generale. Certo, molte domande restano senza aperte. Innanzitutto, è fondamentale fare attenzione alla privacy. Lo studio del Louvre di cui si parlava prima si è basato su informazioni anonime, ma in futuro potrebbe non sempre essere così. È inoltre importante rifuggire l’idea di un’architettura meramente quantitativa, che perda di vista molti altri fattori: quel «gioco sapiente, corretto e magnifico dei volumi composti sotto la luce» di cui scrisse Le Corbusier.
Tuttavia, se messa in pratica correttamente, l’analisi dei flussi umani all’interno degli edifici e delle nostre città promette di rivoluzionare il nostro approccio all’ambiente costruito.
Sempre di più nei prossimi anni, i dati quantitativi consentiranno ai progettisti di capire come gli utenti usano lo spazio, e come quest’ultimo a sua volta permette di rispondere al meglio alle esigenze degli utenti. Anche le più insolite – come quella dei protagonisti di Bande à Part che sgambettano a tempo di record attraverso le gallerie del Louvre.
Architetto e ingegnere, Carlo Ratti è professore presso il MIT di Boston, dove dirige il laboratorio Senseable City Lab. Matthew Claudel è ricercatore presso il Senseable City Lab del MIT.