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 2016  giugno 21 Martedì calendario

Cosa resta di Rocky quarant’anni dopo

Nell’estate del 1976 Rocky irrompeva nella sale di tutto il mondo. Dunque 40 anni fa. Il 6 luglio prossimo Sylvester Stallone compirà 70 anni. Le date si incrociano e certo qualche significato se lo portano perché non c’è dubbio che l’uomo e il personaggio abbiano molto impattato nell’epoca recente, in chiave di spettacolo e di «cultura». Ho virgolettato questo ultimo termine, ma le virgolette, in questa era, vanno sempre più sfumando. Perché il cinema, dal primo novecento, grazie alla sua invadenza e alla sua potenza, si è imposto al di là della primaria opzione, che era l’evasione. Insomma, il cinema comanda, come esempio, come indicazioni, come racconto dei fatti della nostra civiltà e come marketing. Due titoli esemplari, fra mille: Sex and the City e i James Bond, che sono veri ipermercati. Un tempo si riteneva che lo stimolo da film si fermasse lì, alla fase della suggestione che si insinua nel primo strato della coscienza, ma per le cose serie, come l’idea politica o le scelte della vita, si riteneva che non possedesse i requisiti di conoscenza e di profondità necessarie, e che la suggestione evaporasse rapidamente. Il cinema era un persuasore irresistibile, completo. E la politica lo intese presto ed ecco il cosiddetto cinema di propaganda, o di regime. E Stallone in questo senso è uno dei campioni dell’era moderna. Rocky, pettorali e bicipiti ipertrofici, tenuta da pugile, fra le corde del quadrato, è una grafica che fa parte dell’estetica e della memoria popolare.
DIVO PREDESTINATO
Dunque, a metà degli anni settanta in America irruppe Sylvester Stallone. Come sempre accade per un predestinato, la prima fase della carriera era stata faticosa e disordinata, piccolissime parti, che poi diventavano meno piccole fino ad arrivare alla consacrazione, Rocky. Trattasi di esplosione «nucleare», in pochi mesi Stallone diventa uno degli attori, e dei personaggi, più popolari del cinema, in tutto il mondo. È un divo, il destino si è compiuto. Le premesse, le misure, le intuizioni, le circostanze, tutto ha funzionato a meraviglia. A cominciare dalla nascita. Gli Stallone erano una famiglia di emigranti italiani con tutto ciò che ne deriva, in termini di povertà, lotta e speranze. L’America era il luogo dei sogni che si potevano realizzare, certo dovevi avere della qualità, e se sei povero e vivi nei ghetti, difficilmente diventerai il proprietario di una banca o il tycoon di una multinazionale, ma se hai rabbia dentro e la facoltà di esprimerla, magari con la forza, o addirittura con la violenza, allora puoi diventare un Joe Di Maggio, oppure un Rocky Marciano o un Rocky Graziano. E che Stallone abbia chiamato Rocky il suo eroe certo non è un caso. Stallone scrisse il soggetto e la sceneggiatura del film che fu affidato, per la regia, a John Avildsen, un emergente, una mano sicura. Il budget era modesto, poco più di un milione di dollari. Il film lo moltiplicò per 200 e vinse 3 Oscar: film, regia e montaggio. Era la storia di un’emancipazione: un pugile mediocre, tutto sacrificio e famiglia, finisce per battersi per il titolo mondiale. Il successo abnorme incoraggiò la produzione.
L’IMPERO DEL MALE
Ne derivò una serie, di altri sei titoli, che arriva al 2015. Un’intera epoca, trentanove anni. Nel corso dei film, e del tempo, certo Rocky si è adeguato, e anche Stallone. E il sortilegio iniziale non poteva che sfumare. Il salto di qualità, verso la politica, arriva con Rocky IV. Sono passati nove anni dal primo, siamo nel 1985. Presidente è Reagan, un repubblicano che definisce la Russia «Impero del Male». Ma a est sta succedendo qualcosa, la guerra fredda si va placando, Gorbaciov ha già innescato la perestrojka. Come è storicamente successo altre volte Washington trasmette un’indicazione al cinema. E Rocky, a Mosca, sconfigge l’antagonista sovietico. E mentre in mondovisione saluta la famiglia, l’inquadratura stacca su Gorbaciov, non proprio felice, che applaude. Allora Rocky/Stallone urla al mondo un accorato pronunciamento per la pace fra le due potenze. Quattro anni dopo, la caduta del muro di Berlino sancirà definitivamente il cambiamento.
IL «FRATELLO» RAMBO
Con Rambo, del 1982, l’argomento si fa ancora più serio, il Vietnam. Ci sono già stati due film che hanno decretato la tragedia inutile di quella guerra, la prima non vinta nella storia degli Usa. Le firme erano di due maestri che facevano testo, Michael Cimino (Il cacciatore, 1978) e Francis Ford Coppola (Apocalypse Now, 1979). Un aspetto, il più delicato della tragedia, erano i reduci. A Stallone avevano proposto il ruolo del reduce in Tornando a casa, di Hal Ashby, con Jane Fonda. Ma si trattava di un giovane paralizzato, su una sedia a rotelle. Non faceva per Sylvester, il campione della fisicità. Così fece Rambo, il decorato che torna a casa e si scontra col sistema che non lo sa accogliere e che ha dimenticato i ragazzi. Così combatte di nuovo, in patria, come aveva fatto nel Vietnam. L’indicazione era forte: una confessione palese dell’amministrazione di Reagan che comunque non voleva seppellire il problema. Ma nel successivo Rambo 2 ecco che l’eroe tornava in Vietnam e liberare i prigionieri americani. E in Rambo 3 aderiva alla vicenda del momento: in Afghanistan al fianco di «quell’eroico popolo», che combatteva contro gli invasori russi. Il modello Stallone adesso è sorpassato, ma non il meccanismo.
TEMPI MODERNI
Può succedere infatti che Obama alzi il telefono e chiami Hollywood, «dai, mi serve un film sull’uccisione di Bin Laden». Ed ecco prodotto Zero Dark Thirty. Qualità e stile: quelli dei Rocky e dei Rambo sono elementari, dialoghi banali, ma sono figli di questa epoca. Funzionali. Ma il tutto è ineluttabile, per via di quel comandamento che non si può discutere: «Così vuole il mercato». E così, al grande tavolo del gioco globale che decide il destino dei Paesi, siedono tutti, presidenti, siedono banche e gruppi editoriali, siede la grande macchina della persuasione che ha prodotto Rocky e Rambo. Politica, cultura, spettacolo, mercato: è il sincretismo, dominus del nostro tempo.