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 2016  giugno 21 Martedì calendario

Steve McCurry e l’arte di raccontare il mondo con un’immagine

Le sue foto fanno parte del nostro immaginario. Sharbat Gula, la ragazza afghana dagli occhi verdi fotografata nell’85 a Peshawar, in Pakistan, ha fatto scuola. Parafrasando un incipit di Bohumil Hrabal, si potrebbe dire di McCurry, classe 1950: «Da più di trentacinque anni lavoro sulla fotografia ed è la mia love story». Si può raccontare il mondo con le immagini, o con le parole. Steve è il genio delle immagini. Si trova a Roma per promuovere l’autobiografia scritta con Gianni Riotta per Mondadori Electa (Il mondo di Steve McCurry). Ma immagini sono pure quelle lavorate dall’ufficio comunicazione dell’Isis. «Diabolico! Terribile! Non è un talento di cui si possa andar fieri fotografare o riprendere persone che muoiono perché le stai uccidendo. Leni Riefenstahl, regista e fotografa vicina al nazismo, era un genio. Questi non hanno talento alcuno, sono solo criminali. Spazzatura verso la quale non ho alcun rispetto. Niente di ciò che fanno ha valore».
La loro propaganda non è efficace?
«Che abilità c’è nell’uccidere qualcuno? Se lo fai sei niente, sei zero. È gente demoniaca. Vanno ignorati, non si deve perder tempo a parlarne. Torturano esseri umani, sono solo assassini».
Qual è l’immagine che rappresenta meglio l’Isis?
«Quella di un bambino, anzi di quel bambino particolare adagiato su una spiaggia turca: Aylan. Quello è il simbolo dell’Isis, del Male. È la foto che dice tutto ciò che bisogna sapere sull’Isis, che spiega la situazione. Quel bambino è l’immagine che ricorderemo. E che ci racconta l’assassinio, il nazismo di oggi. È l’istantanea del diavolo».
Ci sono foto straordinarie scattate da fotografi non professionisti, diffuse attraverso i social?
«Assolutamente sì. Accade ogni giorno. Fotografie interessanti e notevoli scattate da non fotografi. Va bene così».
Qual è il suo prossimo progetto?
«Ragazzi lavoratori in Etiopia. Ho scattato molte foto che pubblicherò in un prossimo libro».
La ragazza afghana è un’icona, un’immagine che dice più di sé stessa. Che cosa fa la differenza?
«Difficile dirlo. Non conosco la risposta».
È la reazione degli altri a fare quella differenza?
«Sì. Ma è difficile descrivere questa reazione. Non è così semplice».
Qual è la sua foto migliore nella prima guerra del Golfo?
«I cammelli nel fuoco. La difficoltà stava nel fatto che c’erano mine dappertutto, era davvero pericoloso, la situazione era drammatica con quegli animali, il fuoco, le mine»
Anche l’11 settembre lei era lì, a New York. Qual è l’immagine, la foto che le è rimasta dentro?
«I palazzi che implodono e collassano».
E quella che collega a fame e carestia in Africa?
«Penso a Salgado. Lui ha scattato fotografie meravigliose. Ci ha raccontato quella storia, ce l’ha spiegata in modo forte e importante. Le sue fotografie sono preziose eccezionali».
Le foto sono più efficaci delle parole nel descrivere situazioni estreme?
«Immagini e parole vanno mano nella mano, entrambe raccontano storie in modo diverso. Sono importanti sia le parole, sia le immagini».
Che cosa è cambiato con Photoshop rispetto alle fotografie di una volta, al mitico rullino Kodachrome 25?
«Che tu stia filmando qualcosa o usando la macchina fotografica oppure il telefonino, l’importante non è il talento tecnico. La macchina non potrà mai decidere qual è la giusta angolazione o inquadratura. Quindi la bontà di una fotografia dipende da chi sta dietro l’obiettivo. E dalla scelta di quel particolare momento».
Ci sono fotografie che non è riuscito a scattare, immagini che per mille ragioni non ha potuto cogliere pur intuendo la loro importanza?
«La fotografia è fatta di occasioni mancate, devi rassegnarti, è qualcosa su cui devi lavorare a lungo. Vai incontro a successi e fallimenti. Devi andare oltre, guardare le cose in positivo. Cambiare direzione all’improvviso, se necessario, saper modificare i piani e adattarti a culture diverse, affrontare e muoverti in paesi diversi...»
Le fotografie, una volta fatte, vivono di vita propria come quando si mette il punto a un romanzo? Una foto è una storia che non ha fine?
«Proprio così! Ma questo va fuori dal tuo controllo: le persone hanno ciascuna la propria storia, le proprie idee, la propria interpretazione dei fatti ed è un bene che una persona guardi una foto e possa immaginare un significato, qualcosa che ha realtà per loro».
Che cosa cambia avere uno studio con tanti collaboratori?
«Nulla, la fotografia è una. Lavoriamo in bianco e nero, a colori, da soli, con altri. Cerchiamo di fare il nostro meglio...»
Qual è il futuro della fotografia, circondati come siamo da tutte queste immagini su Instagram, Facebook, ovunque?
«Ci dobbiamo lasciar guidare da quelle che ci ispirano, ci colpiscono, ci sorprendono come una poesia, un romanzo, una canzone da quelle che ci trasmettono un significato, che ci commuovono e ci dicono qualcosa di nuovo».