la Repubblica, 21 giugno 2016
Trump si fa più moderato e caccia Lewandosky per recuperare punti
La settimana nera di Donald Trump ha trovato una vittima sacrificale. È Corey Lewandowski, il direttore della sua campagna elettorale, licenziato in tronco dopo una frana del candidato repubblicano in tutti i sondaggi. La cacciata di Lewandoski dovrebbe aprire una nuova fase nella strategia: un Trump in versione più moderata e presidenziale, quello che l’establishment repubblicano invoca inutilmente da un mese.
Fino a ieri l’aspettativa di un cambio di tono, verso un’immagine più rassicurante, si scontrava col motto di Lewandoski: “Let Trump Be Trump”. Lasciate che sia lui stesso. Forse anche perché non sa recitare una parte diversa? Ora lo vedremo. Di certo “essere Trump” – cioè vanitoso, arrogante, impreciso, irruento, spettacolare, volgare, bugiardo, offensivo e chi più ne ha più ne metta – aveva funzionato meravigliosamente quando si trattava di vincere le primarie repubblicane. Poi la spontaneità ha cominciato a danneggiarlo, da quando si tratta di conquistare i consensi per l’elezione presidenziale di novembre.
A liquidare Lewandowski, noto anche per la sua ostilità ai giornalisti, è stata una congiura di palazzo. Anzi di famiglia. Tutte le versioni concordano: decisiva è stata la pressione dei tre figli Donald Jr., Eric, e soprattutto l’influente Ivanka. I figli rappresentano da tempo l’ala moderata, più sensibile ai richiami che vengono dall’establishment repubblicano. Il golpe interno è una vittoria per Paul Manafort, il presidente della campagna elettorale. Manafort è l’esatto contrario di Lewandowski. Più vecchio di un quarto di secolo (ha 66 anni contro i 42 del rivale uscente), è un navigatore esperto della politica repubblicana fin dai tempi di Ford e Reagan, lavora per le campagne elettorali dalla fine degli anni Settanta. Ha rapporti con tutte le lobby, tutti i finanziatori, tutti i notabili del partito: proprio quel ceto politico che Trump ha sempre detto di disprezzare. Newt Gingrich, vecchio arnese repubblicano che nutre velleità di nomination da vicepresidente, ha commentato così la vittoria di Manafort: «Stanno cominciando a capire che l’elezione di novembre con 50 Stati in simultanea è una faccenda più complicata delle primarie».
Finora Trump stava conducendo una campagna disorganizzata, con pochi fondi, fidandosi del proprio estro e della capacità di attirare l’attenzione dei media a furia di “sparate”. Anche a costo di insultare gli stessi media o negare l’accesso ai giornalisti critici. Ora il gioco si è logorato. Navigando a vista, fidandosi del proprio istinto, Trump ha accumulato delle gaffe che cominciano a costargli consensi. In poco più di una settimana, ha attaccato il giudice federale che indaga sulla truffa della Trump University, rinfacciandogli il cognome ispanico. Dopo la strage di Orlando la sua reazione è stata rallegrarsi «per avere previsto tutto». Ha accusato Obama di complicità coi terroristi. Si direbbe che c’è un limite a quanto l’America voglia sopportare: nella media di tutti i sondaggi realizzata da RealClear-Politics, Hillary Clinton ora lo distacca di sei punti, il doppio rispetto a dieci giorni fa.
In questa campagna dove dominano i toni negativi, oggi Hillary terrà un discorso sui temi economici, partendo dalla demolizione dell’avversario: spiegando cioè che Trump non è un imprenditore ma un affarista sommerso dai processi per truffa.