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 2016  giugno 21 Martedì calendario

Brexit, perché le grandi banche voglio restare in Europa

 
Dal suo ufficio di Mayfair, a due passi dall’ambasciata degli Stati Uniti a Londra, Crispin Odey gestisce con il suo fondo d’investimento 12 miliardi di dollari – l’equivalente della ricchezza del tycoon Rupert Murdoch. A pochi giorni dal referendum del 23 giugno che potrebbe sancire l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea e causare, a detta di molti investitori, enormi turbolenze sui mercati mondiali, il finanziere è convinto che “Brexit” sia l’ipotesi migliore per il suo Paese.
«Lo status quo non è sostenibile», ci dice sorseggiando una tazza di tè accanto a un analista italiano, Massimo. «Come nel 1789 o nel 1848 l’Europa ha un sistema politico vecchio e stanco e non abbiamo idea di cosa ci sarà dopo. In Gran Bretagna abbiamo bisogno della flessibilità che può venire solo riappropriandoci del nostro destino». Le frasi di Odey scoprono la frattura che divide la comunità industriale e finanziaria britannica. Il Regno Unito si è ripreso più in fretta dell’eurozona dalla crisi, ma l’economia ha rallentato in questi mesi anche a causa della frenata mondiale. Imprenditori e manager si interrogano se un’economia aperta come quella britannica abbia bisogno del mercato unico europeo per crescere, oppure possa addirittura accelerare senza la regolamentazione imposta da Bruxelles.
Praticamente tutte le organizzazioni di categoria, dalla Confederation of British Industry (Cbi), l’equivalente della nostra Confindustria, alla City of London Corporation, l’ente che governa il centro finanziario londinese, si sono schierate col governo di David Cameron a favore del “Remain”. «Non è la posizione di tutti i nostri membri, ma è quella prevalente», dice Jeremy Browne, ex parlamentare liberal-democratico e oggi “ambasciatore” della City a Bruxelles. «Molte delle aziende di servizi finanziari beneficiano delle regole che permettono a un’impresa basata in uno Stato dell’Ue di operare anche in tutti gli altri. Da questo punto di vista, “Brexit” creerebbe molti problemi».
Browne è però cosciente che, soprattutto fra i fondi più piccoli, l’Unione Europea venga vista prevalentemente come una fonte di regolamentazione eccessiva. «C’è una sensazione diffusa che questi accordi funzionino meglio per le aziende più grosse, che hanno abbastanza personale per gestire l’applicazione delle regole. L’Unione europea dovrebbe tenerne conto».
Anche tra gli industriali, a prevalere è soprattutto la paura che “Brexit” possa essere un salto nel buio. Ieri la “Society of Motor Manufacturers and Traders,” che riunisce i produttori di automobile nel Regno Unito, ha detto che un’uscita dalla Ue potrebbe far perdere posti di lavoro. La Gran Bretagna ha la Ue come suo principale mercato estero e la paura di molte aziende è che Bruxelles possa finire per imporre dei dazi in caso di uscita di Londra dall’Unione.
Nel mondo della manifattura e della distribuzione non manca però chi vede in “Brexit” un’opportunità. Tim Martin, il fondatore della catena di pub J D Wetherspoon, ha deciso di stampare 200.000 sottobicchieri inneggianti al “Leave” e distribuirli nei suoi locali. «Qualsiasi persona che abbia mai gestito un’azienda è a favore di Brexit», dice Edward Atkin, che nel 2007 ha venduto la sua azienda di prodotti per l’infanzia Avent a un fondo di private equity. «La Cbi è composta da grandi aziende, gestite da manager, i quali vogliono soltanto una vita tranquilla, senza scossoni».
Per Atkin, qualsiasi dazio dovesse essere imposto da Bruxelles sulle le merci prodotte in Gran Bretagna sarebbe assolutamente irrisorio rispetto ai movimenti delle valute che qualsiasi esportatore deve gestire ogni mese. Le aziende straniere continuerebbero a investire nel Regno Unito, attratte da altri vantaggi competitivi come l’efficienza dei tribunali e un mercato del lavoro flessibile.
Molte aziende, come il gigante automobilistico Toyota, hanno già detto che potrebbero dover tagliare i loro costi di produzione in Gran Bretagna in caso di Brexit. Per altri, invece, gli investimenti fatti continueranno indipendentemente dal voto. È il caso per esempio della ditta farmaceutica italiana Zambon, che ha da poco acquisito un centro di eccellenza per la fibrosi cistica in Sussex, nel sud del Paese, che manterrà aperto indipendentemente da quanto accadrà nel voto di giovedì.
Il rischio, però, è che un’uscita dalla Ue possa indebolire la base della ricerca scientifica nel Regno Unito, e con essa la competitività del Paese. «Il 15 per cento dei nostri fondi di ricerca, pari a 60-70 milioni di sterline, sono legati a programmi Ue», dice Michael Arthur, rettore di University College London, uno dei più grandi atenei britannici.
«Abbiamo avviato grandi progetti di collaborazione europei come lo sviluppo di risonanze magnetiche per una più rapida diagnosi del cancro. L’Europa ha ottenuto grandissimi risultati in termini di collaborazioni scientifiche, perché diavolo vogliamo andarcene?».