21 giugno 2016
L’M5s ha fatto incetta di voti dove la crisi morde
Tommaso Ciriaco per la Repubblica
Dove un tempo sorgeva la villa del compagno segretario Luigi Longo, adesso sventola bandiera grillina. Genzano di Roma, rossa da quando l’Italia è una Repubblica, è caduta. Male, per giunta, perché lo sconfitto del Pd si è arenato al 40%. «Eppure abbiamo due asili nido, quartieri vivibili, un presidio sanitario e un nuovo ospedale in arrivo – elenca incredulo Flavio Gabbarini – Certo, c’è la crisi e qualche buca da tappare, ma qui ha pesato il solito masochismo della sinistra divisa». E però non basta il vecchio vizio della disgregazione per spiegare tutto, quando i grillini la spuntano in diciannove ballottaggi su venti. Non sarà che troppo a lungo le amministrazioni di destra e di sinistra hanno dimenticato di costruire case popolari, curare ferite del territorio, combattere il crimine o anche solo tappare qualche buca per strada? Non sarà che hanno lasciato marcire un problema di troppo?
Inquinamento dimenticato, disoccupazione giovanile, casse comunali alla canna del gas: i cinquestelle vincono ovunque – e con percentuali impressionanti – ma vincono soprattutto dove chi li precede è rimasto paralizzato di fronte alla crisi. Prendete Carbonia. Città depressa, avamposto della provincia più povera d’Italia (e forse d’Europa): ecco la placenta del trionfo grillino. Nata sotto il fascismo per ospitare i minatori di carbone nel Sulcis, in tempi d’autarchia. «E poi c’è stata la riconversione – ricorda la nuova sindaca Paola Massidda, grillina con in tasca il 61% dei voti cittadini – e vent’anni di buste paga che hanno tenuto in vita la città con l’industria dell’alluminio. Finito quello, lo sfascio. Qua la filiera Pci-Pds-Ds-Pd governa ininterrottamente da settant’anni, all’insegna del totale immobilismo. Cosa abbiamo proposto noi? Semplice, il cambiamento».
È la parola magica che proietta il Movimento fino a vette inimmaginabili. Più si scava, più esce allo scoperto un malessere ignorato. A Pisticci, provincia di Matera, ha la forma gassosa dei miasmi industriali: «Questa non è un’area depressa, qui si fabbrica l’Amaro lucano. Però si è messa di mezzo Trivellopoli – spiega Mirella Liuzzi, deputata pentastellata – Alcuni dei rifiuti venivano smaltiti in un’azienda di Pisticci. Non immaginate gli odori nauseabondi e il timore di inquinamento delle falde acquifere, non immaginate l’allarme della popolazione». Risultato: 63% al Movimento e palla al centro. Funziona così un po’ ovunque, solo così ha un senso l’impronosticabile: tra il primo e il secondo turno i grillini hanno raddoppiato il consenso, passando da 469 mila a 940 mila voti. «A Pinerolo e San Mauro Torinese – ricorda la deputata cinquestelle Laura Castelli – ha sempre vinto la sinistra. Stavolta no, perché è pesata molto la crisi economica. La borghesia si è impoverita e adesso ci ascolta». Succede anche nel Veneto ricco di risorse e di problemi. «Chioggia, la quinta città della regione, vive di turismo e di pesca – spiega il dem Davide Zoggia – ma quella delle vongole è andata in crisi e molti pescatori sono finiti a fare altri mestieri. E poi c’è il sindaco uscente, che paga l’aver buttato il Pd fuori dalla giunta». Senza dimenticare Nettuno, litorale laziale: «Il risultato si spiega in primis con l’ostilità verso Renzi – dice il verde Angelo Bonelli, che conosce bene quel territorio – ma anche con il fatto che per troppi anni è stata tollerata la presenza della criminalità, connessa al sistema politico. La mafia c’è, così come un sistema di connivenza. La politica – e certa stampa – si è bendata gli occhi troppo a lungo».
Succede anche al Sud, però. Dove la crisi morde senza pietà. Alcamo, Porto Empedocle e Favara finiscono sotto il controllo del grillismo con percentuali tra il 71 e il 75%. «Alcuni di questi sono comuni in pre dissesto – ricorda Nino Bosco, alfaniano con il polso dell’Isola – C’è una situazione economica molto critica e una disoccupazione elevatissima. Però il Movimento sfonda anche nel ricco Nord, quindi non possiamo più considerarlo un voto di pancia. No, molti credono nella loro proposta politica». Quando poi ci si mettono gli altri, diventa tutto più facile. A Porto Empedocle, appunto, si è tornati alle urne perché il primo cittadino uscente dell’Udc si è dimesso. Nessuna crisi politica: voleva fare il sindaco di Agrigento (e ci è riuscito). Un gol a porta vuota, per i cinquestelle.
Al Dream’s Bar del centro commerciale Le Torri, nel quartiere di Tor Bella Monaca, non c’è l’ombra di un sogno.
Da dietro il bancone Lola guarda il cronista che le chiede perché il 79% degli abitanti ha votato Virginia Raggi. Lo guarda come se il tizio che ha davanti fosse un poliziotto che le sta chiedendo dopo si trovava ieri notte verso le 23 (l’orario di chiusura delle votazione che ha segnato l’uccisione di Giachetti per mano grillina). Lola si passa i palmi delle mani sui capelli lisci e ramati, tirati all’indietro; fa girare il piattino sul banco e lo ferma con una tazzina di caffè nero bollente. «Servito», dice al cronista che prova a rompere il ghiaccio con la cassiera, Flora, la quale invece ha tanta voglia di parlare. «La lasci stare, Lola è una comunista pentita de tutto e delusa da tutti. Io e tutta la mia famiglia abbiamo votato sta ragazza, ma non perché è 5 Stelle, ce sembra tanto caruccia, perbene, e poi siamo alla disperazione: ci siamo detto proviamo pure questa, peggio de così... Se poi anche lei è una “sola”, la prossima volta basta».
Lola sembra una pentola a pressione. Entra Stefano, di professione «tuttofare» (lo dice lui). Si unisce alla discussione. È bassino, volto olivastro, ha 70 anni, ne dimostra quindici in meno. Mi fa vedere le mani pieni di calli. «Lavoro da quando ero piccolo così», e con la mano misura poco più di un metro da terra. «Sì, pur’io ho votato ’sta pischella (la Raggi ndr). Mettemo pure lei alla prova. Tanto, ci ha fregati la destra, ci ha fregati la sinistra, mo’ vedemo se lo fa pure ’sta pischella». Flora ride. Lola fa finta di non ascoltare, serve al banco due signore che Alberto Sordi avrebbe definito «belle buzzicone mie». «Sì, l’amo votato pure noi la Raggi - dice una delle due - perchè siamo alla frutta. Nun c’è lavoro, c’è monnezza da tutte le parti, negri e stranieri ovunque, buche, i mezzi che non passano, le case popolari occupate che non pagano e io devo pagare le tasse. E li spacciatori ovunque».
Entra Marco. Vive 13 ore al giornata dentro la sua piccola edicola nella piazzetta del centro commerciale. Si unisce al dibattito. Il Dream’s Bar diventa una piccola e profonda curva del risentimento e della rabbia, il ventre dell’esasperazione di chi si sente lasciato solo. Il Vaffa grillino dei “borgatari” qui echeggia da tutti i muri di cemento, i camminamenti sopraelevati, le scale mobili, le modeste vetrine di questo centro commerciale. È una delle tante periferie (praticamente tutte) dove la Raggi ha stravinto. L’unica che le ha tenuto testa è stata Giorgia Meloni al primo turno. Giachetti? «E’ venuto a chiederci i voti perché qui ce ne stanno tanti», si sfoga l’edicolante. Tor Bella Monaca, dove vivono 28 mila romani, fa parte di una circoscrizione (Roma VI) di 300 mila abitanti. Qui c’è il reddito pro capite più basso della capitale. «Vada a vedere la monnezza davanti la scuola», dice Marco che indica un punto oltre una selva di palazzoni-alveari. «La gente butta i materassi e i vecchi divani e nessuno li controlla». «Anche la gente dovrebbe comportarsi più civilmente, no?», osa il cronista. L’edicolante lo guarda stranito: «L’esempio deve venì dall’alto, dalle autorità che se magnano le nostre tasse e vanno in giro con le scorte».
Entra un uomo di circa trent’anni: faccia torva, naso da pugile, fisico scolpito sotto una maglietta aderentissima, tatuaggi lungo due braccia muscolose, capelli rasati tranne leggera cresta. Con lui c’è la moglie e la figlia di otto anni. Michele manda giù un caffè con un sorso, dice che lui ha votato Meloni. «Io li negri li odio. Col furgone faccio le consegne della frutta nel quartiere. Ahò, ormai la maggior parte dei fruttaroli so’ stranieri e i peggio so’ gli egiziani, li caccerei tutti a pedate nel c.. Io devo abbassare i prezzi e loro vendono tutto 99 centesimi: con mille euro campano un mese tre famiglie, io che glie dico a mi moglie e mi figlia». La quale figlia intanto frigna, vuole andare all’area giochi.
Lola non ce la fa più e rompe il silenzio. «Ma perché te sembra strano che qui tutti votano ’sta signorina Raggi. Ma l’hai girato ’sto quartiere? È un insieme di ghetti. E poi, tu che sei giornalista, me lo voi spiegà perché qualunque cosa di brutto succede a Roma scrivete che succede a Tor Bella Monaca. Ci trattate male e i politici vengono qui solo per prendere i voti e poi scompaiono. La Raggi per molti è l’ultima spiaggia. La spiaggia della disperazione, non quella dei signori che si abbronzano. Al governo ci dovrebbe andà la massaia, il muratore, quello che sa cosa significare lavorare e lo fanno lavorare fino a 70 anni a trenta metri d’altezza sulle impalcature».
Il cronista sale una rampa, attraversa un camminamento da cui si vedono i Colli Albani, si avvia verso gli uffici della Asl e della circoscrizione, tra cartacce e bottiglie di plastica. E entra al Teatro Tor Bella Monaca. È il primo giorno che riapre, dopo un anno di attesa del bando del Comune. Roberta e Livia sono felici di poter tornare a lavorare in questo «presidio di cultura»: un’oasi che gli abitanti del quartiere rispettano e molti, soprattutto bambini, frequentano per la danza, il teatro, la musica. «Abbiamo dovuto insistere fino alla morte per avere il bando e riaprire queste sale», racconta Livia. «Lei lo sa che in tutto il quartiere non c’è un cinema? Non c’è niente, solo noi e alcune associazioni che si occupano di bambini e di violenza sulle donne. «La Raggi è una novità alla quale la gente si aggrappa. Se nasci qui sei un predestinato».