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 2016  giugno 21 Martedì calendario

LeBron ce l’ha fatta e regala il titolo Nba a Cleveland

L’uomo in missione ha trovato la pace. A 31 anni LeBron James aveva tutto dalla vita tranne una cosa: un titolo Nba con i Cavaliers, la squadra della sua terra. Ci aveva provato una prima volta, dal 2003 al 2010. Numeri da circo, vagoni di soldi, fama, la naturale invidia e l’odio di molti, gli impegnativi soprannomi Re e Prescelto, i paragoni con Jordan e una finale giocata nel 2007. Persa, ovviamente. Perché Cleveland, «the mistake on the lake», la barzelletta dello sport Usa per quell’ultimo titolo professionistico conquistato nel football con i Browns nel 1964, non vinceva mai. Destino. Forse una maledizione. Allora LeBron se n’era andato a Miami, fra accuse di tradimento, maglie bruciate e Dan Gilbert, proprietario del club, che prometteva che l’Errore sul lago avrebbe vinto il titolo da sola prima di James.
Sbagliato. LeBron vince due anelli con gli Heat, i Cavs remano a fatica. Ma lui si sente sempre incompleto. Nativo di Akron, 60 km da Cleveland downtown, dov’è cresciuto negli stenti dei bassifondi con la madre ma senza padre, a sapere poi chi era, sente di avere un debito da saldare. E nel 2014 torna a casa. Cleveland lo perdona, lui parte in missione. Più adulto. Forse più simpatico. Sicuramente pronto. Nel 2015 la prova generale: i Cavs perdono la finale con Golden State senza storia. Troppi infortuni e il Re gioca da solo. Stavolta no. Stavolta i cavalieri ci sono tutti, sani e forti. Così vincono e lo fanno nel modo più incredibile, perché mai nessuno nella storia delle finali Nba era risalito dall’abisso di un 1-3: 32 volte era successo, 32 volte la rimonta era fallita. Fino all’altra notte. Quando, dopo aver dominato le gare 5 e 6, i Cavs hanno battuto 93-89 i Warriors in un’epica gara 7 e il loro popolo a 3.500 chilometri di distanza nel depresso Midwest ha trovato finalmente una ragione per ballare.
Per James, capace di un romanticismo antico nella Lega più ricca e cinica del pianeta, è il sogno di una vita che si realizza: «Volevo un titolo per la mia città. Per questo sono tornato due anni fa». E per questo è scoppiato in un pianto liberatorio con Kyrie Irving, l’altro artefice del trionfo con una tripla decisiva sull’89 pari; i compagni che seguirebbero il Re anche se si buttasse nel lago Erie a dicembre; il coach Tyronn Lue, subentrato a gennaio a David Blatt, mai amato da LeBron; e pure Gilbert, il boss, che dal 2010 ha cambiato idea.
Così – mentre i Warriors dopo il record assoluto in regular season (73-9) sono implosi tra infortuni, il calo di Steph Curry (l’altro figlio di Akron dove però è solo nato ma non ha mai vissuto), il nervosismo e l’ingovernabile scoperta che non si vince per grazia divina – LeBron ha apparecchiato il miglior basket della sua carriera. Asciutto, essenziale, sempre a canestro, ovvio, ma soprattutto saggio deus ex machina al servizio della Causa. Non a caso è stato il migliore delle finali per punti, rimbalzi, assist, stoppate e recuperi. E non a caso il gesto donato i posteri è una giocata difensiva a fine match: una stoppata cominciata da un pianeta ignoto e finita a Oakland per inchiodare lo stranito Iguodala al suo status di umano. Ma così è: al mondo c’è solo uno capace di danzare come Baryshnikov portandosi sul palco 203 centimetri e 113 chili. Anche per questo nessuno può più avere dubbi su LeBron James: da oggi nell’olimpo dei grandi c’è anche lui e non andrà più via. Perché? «Perché ci ho messo cuore, sangue, sudore e lacrime». Come Churchill. Ma più agile.