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 2016  giugno 18 Sabato calendario

Eder adesso è felice perché adesso nella storia della nazionale c’è un gol che finisce con uno slalom tra quattro svedesi, una finta e un tiro perfettamente ricurvo

 
Ci sono  italiani di striscio, per caso ma non per sbaglio, italiani infilati in tasca come un passaporto e nell’angolino come un gol. Nello sport si chiamano oriundi, dal latino “oriri” che vuol dire nascere: verbo bellissimo. «E siccome non si finirà mai di discutere se sia giusto che quelli come me giochino in nazionale, questa è una polemica stupida». Così si esprime Èder Citadin Martins, congiuntivi compresi. Poco italiano lui? Alla fine della conferenza stampa, dirà: «Conte ci ha chiesto più pazienza con la palla e maggiore ampiezza». Ampiezza: Ugo Foscolo e Guicciardini non l’avrebbero spiegato meglio.
Adesso, nella storia della nazionale c’è un gol che finisce con uno slalom tra quattro svedesi, una finta e un tiro perfettamente ricurvo e che comincia nell’Ottocento, quando una colonia di immigrati veneti fondò la cittadina di Lauro Muller, stato di Santa Catarina, Brasile. Tra loro il signor Battista Righetto di Nove, provincia di Vicenza. Scavavano, lui e gli altri, nelle miniere di carbone. Era il bisnonno di Eder, il quale dà altro spessore storico al guizzo di Tolosa: era infatti dal 1934 che un oriundo non segnava per gli azzurri in una fase finale di un mondiale o di un europeo, e quelli che ci riuscirono (vincendo la Coppa Rimet) si chiamavano Guaita e Orsi, lui addirittura nella finale contro la Cecoslovacchia, sangue argentino sotto la maglia color Savoia.
Infine, questa rete è identica a quella di Roberto Baggio contro la Bulgaria a Usa ’94, era la semifinale ed è una fotocopia, un augurio.
Cambiano mondi, storie, geografie. Ora in nazionale c’è un brasiliano che gioca nell’I- talia e c’è un italiano che per giocare è andato in Olanda. Il brasiliano si chiama Eder in omaggio all’Eder del mundial ’82 (stangava col sinistro, ne è rimasta memoria), l’italiano si chiama Graziano in omaggio a Ciccio Graziani, stesso mundial e stessa partita: quando li fregammo con Paolo Rossi, noi calimeri contro gli dei del pallone anche se quell’Italia era piena di meravigliosi campioni. E forse sarebbe ora di ragionare meno di confini, territori, frontiere, se l’unica terra dello sport è quella degli uomini con un’anima dentro. «Sono felice».
Quanti viaggi, quanta strada per il bisnipote di Battista. A vent’anni lo scoprì Eugenio Ascari che sarebbe diventato il suo agente, andò a vederlo e a prenderlo in terza divisione brasiliana, la squadra e la città solo un angolo nella carta geografica, Criciùma. Poi altri percorsi girando sempre al largo, Empoli, Frosinone, ancora Empoli, Brescia, Cesena, Sampdoria ed è curioso che l’unico nome grosso, l’Inter, sia per adesso il capitolo più piccolo del racconto. Quasi piccolo quanto Eduardo, il bimbo in magliettina azzurra che la moglie Luciane gli porge per il bacio a bordo campo quando tutto è compiuto. La famiglia Eder che due anni fa tifava giustamente Brasile davanti alla tv, tutti e tre in divisa verdeoro, senza dogana e senza ipocrisia.
Accade a volte che aspettando il gigante sbuchi Calimero. Accade che non ci siano segnali di Ibrahimovic e invece una traccia, una soltanto ma larga e profonda, di Eder. «Ci credevo anche quando non giocavo e non segnavo: per mia fortuna ci credeva pure Conte. Stavo fuori nell’Inter e mi allenavo a casa, da solo, per essere pronto». Il suo Europeo sembrava la pagina della Settimana Enigmistica, quella di “trovate l’intruso”: lui. Dodici gol nella Sampdoria, appena uno e striminzito con l’Inter dopo avere rifiutato il Leicester, quando si dice vedere lontano. E poi quello di ieri che li copre tutti: «Molto bello, ho fintato di tirare, il difensore si è spostato e così ho tirato davvero, nell’angolo: l’azione nasce da rimessa laterale e non è un caso, noi curiamo i dettagli. Lo dedico al nostro gruppo di lavoro, nessuno escluso, e alla fatica che abbiamo fatto per arrivare fin qui». Per oriri, nascere.