la Repubblica, 18 giugno 2016
Visco è preoccupato per Brexit ma non per l’Italia
Ignazio Visco si dice preoccupato per il rischio di un’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, ma non vede rischi specifici per l’Italia. Nonostante il crollo delle azioni delle banche di questi mesi, il governatore della Banca d’Italia ritiene non sia una “buona lettura” dei fatti pensare che il nostro sistema finanziario sia in questo momento il più esposto a shock esterni. Visco difende anche la posizione dei governi italiano e francese, che hanno chiesto alle autorità europee di non esagerare con le richieste alle banche di rafforzare i loro bilanci. Piuttosto, a detta del governatore, l’Ue deve rivedere le norme sugli aiuti di Stato, oltre a accelerare sulla creazione di un cosiddetto “backstop” pubblico, che permetta all’eurozona di intervenire con risorse comuni in caso di crisi finanziaria.L’Unione Europea ha davanti il rischio di “Brexit”. Quali sarebbero le conseguenze politiche e economiche? E come pensate di fronteggiare una possibile crisi finanziaria?«Un voto della Gran Bretagna a favore dell’uscita dall’UE è il rischio che ci preoccupa di più al momento. Ne stiamo già vedendo gli effetti sul mercato delle valute e delle obbligazioni. Se ci fosse un’uscita ci sarebbe un lungo processo di negoziazione, che avrebbe sicuramente conseguenze finanziarie, anche se è difficile prevedere quanto grandi. Teniamo d’occhio questo rischio giorno per giorno e tutte le banche centrali, non solo la Banca centrale europea, sono pronte a intervenire con gli strumenti convenzionali che hanno: i tassi d’interesse, i repo, gli swap».Brexit vorrebbe dire la fine della costruzione europea?«Vorrebbe dire che, per evitarne la fine, dovremo portare avanti l’integrazione. Come si è detto dopo l’Unificazione: fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani».Davvero pensa che ci sia appetito fra l’elettorato per portare avanti il progetto europeo?«Il pericolo è che si rallenti, è per questo che dobbiamo andare avanti. Molti fanno un errore pensando che la maggior parte, se non tutte, le questioni politiche, sociali ed economiche possano essere risolte a livello nazionale, piuttosto che a livello europeo. Questo è profondamente sbagliato, basti pensare all’immigrazione o alla sicurezza, che possono essere risolte solo a livello continentale ».In molti temono che con Brexit ci potrebbe essere un aumento dei rendimenti dei titoli di Stato italiani e un crollo delle nostre azioni bancarie. È preoccupato?«L’aumento degli spread di questi giorni è dovuto alla riduzione sui tassi d’interesse in Germania, mentre il prezzo del debito italiano è rimasto più o meno invariato. Quanto alle azioni delle banche, queste stanno già scendendo. Il rischio di Brexit è quello di una volatilità generalizzata sui mercati. Le azioni delle banche riflettono preoccupazioni circa i crediti deteriorati, di cui ci occupiamo con attenzione. Inoltre, in queste occasioni il mercato tende a esagerare con le sue prime reazioni».La Banca d’Italia è molto critica sul bail in. Perché la posizione italiana di un periodo di transizione non è stata accettata in Europa?«Abbiamo chiesto più di un periodo di transizione. Prima di tutto abbiamo chiesto ai nostri partner che, se anche ci fosse stata una decisione di non utilizzare i soldi pubblici per gestire problemi bancari specifici, dovevamo pur sempre prenderci cura dei rischi sistemici, perché c’è bisogno di un “backstop” pubblico. In secondo luogo, abbiamo detto che se anche non si fosse voluto intervenire con soldi pubblici nelle banche, bisognava farlo essendo chiari e precisi: chiari, dando abbastanza tempo a banche e investitori per adeguarsi, e precisi, attraverso strumenti che fossero contrattualmente espliciti e misurati per quello scopo specifico. La decisione, invece, è stata quella di prendere strumenti che fino ad allora portavano solo un rischio di “liquidazione” e trasformarli in strumenti con un rischio di “risoluzione”. La posizione di maggioranza, espressa da Paesi che avevano già usato i soldi dei contribuenti per risolvere i problemi bancari, è stata di non ripetere quell’esperienza. L’Italia era il principale Paese a non averlo fatto, e ne ha pagato le conseguenze. C’erano anche ragioni politiche: l’Italia in quel periodo ha avuto molti cambiamenti politici, che hanno complicato le cose».Quando parla di un “backstop”, parla di un backstop europeo o anche di uno nazio-nale?«Entrambi. Penso che ci voglia sicuramente un backstop europeo, mentre per quello nazionale c’è un problema di aiuti di Stato. E qui c’è una discussione in corso».C’è un accordo a livello europeo su possibili eccezioni al regime di bail in? In un’intervista a Repubblica, il Commissario alla Concorrenza Margrethe Vestager ha molto circoscritto questo tipo di eccezioni.«C’è un qualcosa chiamato “intervento precauzionale” pubblico, dunque un’eccezione esiste. Il problema è che uso farne e chi decide a che punto si possano usare i soldi pubblici: a che livello, quanto elevato debba essere il rischio, quanto sistemico. Le crisi finanziarie non possono essere mai del tutto evitate. Possiamo ridurne i rischi e l’impatto, ma crisi ce ne saranno sempre. L’altro punto è capire cosa si intenda per “aiuto di Stato”. Mi pare che l’interpretazione corrente sia che non ci debbano essere aiuti di Stato, punto e basta. Ma nel caso italiano, c’è stata un’esternalità negativa, non causata dal comportamento delle banche. Alcune banche ci hanno messo del loro attraverso i propri comportamenti, ma la causa è stata una recessione lunga e prolungata. La risposta sarebbe dovuta essere mettere dei soldi in un veicolo che avesse la guida e del sostegno da parte dello Stato. Penso che questo sarebbe un aiuto di Stato giustificato».L’economista Luigi Zingales ha detto qualche settimana fa che l’Italia dovrebbe chiedere aiuto per le sue banche al fondo salva-Stati, proprio come ha fatto la Spagna. Anche in Spagna nel 2012 le autorità dicevano che le banche erano solide, come sta facendo il governo italiano. Non pensa ci sia bisogno di una soluzione sistemica?«Ho scritto dell’importanza di una soluzione sistemica tre anni fa. Siccome non è stata possibile, le autorità hanno varato diverse misure: uno schema di garanzie pubbliche sulle cartolarizzazioi di sofferenze (GACS), una riforma per permettere una più rapida riscossione delle garanzie e del collaterale, la decisione da parte del settore privato di creare, su stimolo nostro e del governo un fondo d’investimento. Noi non abbiamo forzato le banche a creare Atlante, e del fatto che non le abbiamo forzate sono indice le dimensioni del fondo, che sono grandi sì, ma non grandi quanto potrebbero essere e sarebbe utile fossero. È stata una buona idea, e dovremo seguirla con attenzione dal punto di vista della vigilanza, come stiamo facendo con la BCE. L’importante è che l’obbiettivo del fondo sia l’interesse comune e non individuale. Questo vuol dire ridurre l’effetto sul costo complessivo di finanziamento delle banche, e gli spillover tra le passività bancarie».Non pensa che, nonostante queste misure, il sistema bancario italiano sia più vulnerabile agli shock di qualsiasi altro sistema in Europa?«No, non credo questa sia una buona lettura dei fatti. Prima di tutto c’è un problema nell’usare la parola “sistema”. Ci sono molte banche in Italia, diverse fra loro. Oggi c’era un articolo nel Boersen Zeitung che sottolineava quante banche buone ci sono in Italia. Ci sono poi altri casi: per esempio c’è Monte dei Paschi, una banca problematica su cui siamo intervenuti da tempo. I francesi hanno avuto Credit Lyonnais, poi c’era Dexia. Anche in Germania ci sono state banche problematiche. Ci sono sempre banche problematiche, ma sono problemi specifici. Ora abbiamo problemi con due banche in Veneto (Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca), che sono sostenute da Atlante.Abbiamo una banca problematica di base a Genova (Carige). Dietro ciascuno di questi problemi, ci sono interventi da parte delle autorità di supervisione. Possiamo discutere su quanto tempo ci voglia a intervenire in questi problemi, sulla distribuzione di poteri tra l’autorità amministrativa e quella giudiziaria, se queste ultime possano lavorare meglio insieme. Ma, alla fine, abbiamo fatto tutti quello che dovevamo fare, in maniera appropriata. Se altri la pensano diversamente, è perché non è chiaro quali siano i reali poteri della vigilanza, o perché ci sono interessi politici».I governi italiano e francese hanno chiesto al Comitato di Risoluzione Unico di non esagerare con le sue richieste riguardo al rafforzamento dei bilanci delle banche. Pensa che le autorità europee chiedano troppo capitale?«In passato c’è stato bisogno di aumentare il capitale perché i coefficienti patrimoniali erano bassi a causa della crisi. Il capitale che abbiamo ora è più alto e di migliore qualità. La cosa più importante a questo punto è rendere chiaro che abbiamo fatto quel che c’era da fare. Si tratta di un sistema la cui regolamentazione va ora attentamente tarata, un sistema che ha bisogno di avere certezza sulle regole da soddisfare».Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, è venuto a Roma per fare un discorso. Ha un messaggio per lui o peri il governatore della Banca di Francia?«So che ci sono battute, ma siamo in ottimi rapporti. Ci sono talvolta delle divergenze, ma queste non sono eterne. Non è vero che uno sia una colomba, un altro sia un falco, un altro ancora cerchi di fare da paciere. Nel Consiglio Direttivo della Bce ci sono discussioni dinamiche e profonde, a cui ognuno contribuisce con il suo background, la sua esperienza e le informazioni che ha a disposizione»