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 2016  giugno 18 Sabato calendario

La Francia, la Germania e il collaborazionismo «patriottico»

Recentemente ho visto il bel film di Aleksandr Sokurov «Francofonia». Oltre all’operato del direttore del Louvre, Jacques Jaujard, e dell’ufficiale tedesco Franziskus Wolff-Metternich, viene richiamata con insistenza la politica collaborazionista di Pétain e Laval. Trovo che se l’ottantenne maresciallo di Francia non avesse abbracciato un dialogo con la Germania (a partire dal severo armistizio del 22 giugno 1940), Parigi avrebbe perso gran parte delle sue ricchezze storico-artistiche sotto duri bombardamenti e non la conosceremmo per quella che è oggi. Dall’altra parte, se la Francia avesse coraggiosamente affrontato i tedeschi, gli inglesi non si sarebbero ritirati da Dunkerque e la guerra sarebbe potuta durare molto meno tempo.
Giovanni GodoliCaro Godoli,
La tesi di un collaborazionismo «patriottico» che avrebbe risparmiato alla Francia il trattamento subito da altri Paesi sconfitti, fu usata dall’avvocato difensore di Pétain nel processo che si concluse con la condanna a morte del maresciallo (poi commutata nella prigione a vita). Ricordo un «mock trial» (un processo per finta) che andò in scena nel 1952 a Salisburgo, in una scuola di studi superiori fondata dall’Università di Harvard. Di fronte a una platea composta da studenti europei e professori americani, un «avvocato» sostenne che dietro l’apparente duello fra il vecchio maresciallo e il generale De Gaulle si nascondeva una scaltra distribuzione delle parti. Mentre Pétain compiaceva i tedeschi con una collaborazione che rasentava l’alleanza, De Gaulle puntava sulla vittoria degli Alleati. Uno dei due avrebbe perduto la partita, ma la Francia, in ultima analisi, avrebbe sempre vinto.
La tesi era brillante e conteneva qualche briciola di verità. Ma dimenticava che i due partiti erano espressione di una profonda divisione fra due Paesi diversi. I francesi che risposero all’appello di De Gaulle erano in buona parte democratici, repubblicani, laici, eredi della grande tradizione della Rivoluzione francese. Mentre molti di quelli che si schierarono con Pétain erano profondamente convinti che la disfatta fosse soprattutto morale e dovuta al modo in cui la democrazia laica e parlamentare, insieme a una spregiudicata borghesia degli affari, aveva corroso ciò che ancora restava dei grandi valori della tradizione nazionale: la monarchia, la gerarchia sociale, il rapporto privilegiato con la Chiesa cattolica. Non è sorprendente che una delle prime preoccupazioni del regime di Vichy fosse quella di sostituire il credo repubblicano (Libertà, Eguaglianza, Fraternità) con una nuova terna: Lavoro, Famiglia, Patria.
Questa guerra civile fredda fra due idee della Francia era già scoppiata durante il caso Dreyfus (il capitano francese falsamente accusato di spionaggio per la Germania alla fine del secolo precedente) e scoppiò nuovamente durante la Seconda guerra mondiale. La presenza di un forte partito comunista, allora strettamente legato alla Unione Sovietica, complicò ulteriormente il quadro. Il partito dava un contributo fondamentale alla Resistenza; ma permetteva a Vichy di giustificare, agli occhi di molti francesi la collaborazione con un Paese, la Germania, che sembrava a molti la più solida barriera contro la «minaccia bolscevica».
Pétain perse e fu condannato da un tribunale francese. Ma De Gaulle non vinse. Anche il generale era convinto che la democrazia parlamentare francese fosse malata, ma i suoi connazionali rifiutarono il rimedio «presidenzialista» che cercò di offrire alla nazione dopo la fine della guerra. Lo accetteranno nel 1958 mentre la Francia stava perdendo un’altra guerra: quella d’Algeria.