Corriere della Sera, 18 giugno 2016
Autobus, quanto vale un biglietto. Se il trasporto pubblico locale è una metafora della politica nelle città, l’Italia ha non molto di cui vantarsi
È uno degli oggetti più celebri al mondo. Ogni giorno in Italia undici milioni di persone ne portano uno in tasca o nella borsa. Un biglietto dell’autobus è uno strumento a bassa tecnologia, ma ad alta densità di contenuto: in quel pezzo di cartone da 1,50 euro a Milano, Roma e Torino, da 1,30 a Bologna o da un euro a Napoli, non è difficile leggere come in un codice a barre la qualità della convivenza civile delle grandi città che domani eleggono il loro sindaco.
In quel rettangolo è riassunta la misura di controllo sociale, attenzione alle regole, e qualità di un’amministrazione comunale nel tempo: non solo negli ultimi tre ma negli ultimi trent’anni, pari all’età media di alcuni dei mezzi pubblici che continuano a circolare nei centri storici d’Italia. Nell’economia di una corsa in tram, in bus o in metrò è condensata parte della storia politica del Paese. Non lascia dunque ben sperare il fatto che la velocità media di un viaggio urbano nelle ore di punta sia oggi fra i sette e gli otto chilometri l’ora, secondo la Cassa depositi e prestiti: uguale a quella dell’anno 1700.
Se il trasporto pubblico locale è una metafora della politica nelle città, l’Italia ha non molto di cui vantarsi. Con quasi centomila addetti e un giro d’affari da dieci miliardi di euro, questo Paese ha un’industria della mobilità urbana più carica di manodopera che Gran Bretagna o Spagna eppure i suoi mezzi coprono fra il 20% e il 40% di chilometri in meno ogni anno; incassa sussidi pubblici di un terzo sopra alle medie europee, secondo Bain & Company, eppure i mezzi continuano a viaggiare troppo spesso semivuoti: il tasso medio di carico di un autobus urbano in Italia è di appena il 22%, contro il 42% in Francia o il 45% in Spagna.
C’entrerà pur qualcosa il fatto che, nel Paese dei conflitti d’interessi, il biglietto del bus e ciò che vi è dietro ne sono il condensato: i Comuni sono allo stesso tempo proprietari delle imprese di trasporto, committenti dei loro servizi per conto dei cittadini, regolatori del loro mercato (tenuto ben chiuso alla concorrenza) e infine decisori politici di ultima istanza. Distribuiscono i contratti, coprono i costi delle assunzioni e soprattutto cercano consenso.
Forse è questa miscela che rende l’età media dei mezzi fra le più vetuste d’Europa (un autobus ha 8,4 anni a Milano, un tram 31 anni a Roma) e i bilanci delle compagnie fra i più disomogenei. Per dare uno strumento ai cittadini che domani andranno alle urne, il Corriere ha cercato comunque di trarne alcune indicazioni sull’efficienza delle grandi aziende di trasporto locale, sui loro costi reali e chi li paga. Tra Torino, Milano, Bologna, Roma e Napoli i risultati sono diversi – alcuni casi in regola con la legge, altri no – ma un tratto in comune c’è: i ricavi da quei biglietti o abbonamenti non bastano mai. Non coprono il costo del personale dell’azienda, non finanziano più di una frazione dei costi operativi (tolti gli investimenti) delle aziende di trasporto comunali. Il resto sono sussidi e trasferimenti garantiti con le tasse di tutti i cittadini.
Dovesse davvero finanziare tutti gli oneri – meno gli investimenti – il biglietto dell’autobus costerebbe oltre quattro euro a Napoli invece di uno; a Torino e a Roma sarebbe di 4,50 anziché di 1,50; a Milano sarebbe di tre e non di 1,50; a Bologna sarebbe di quasi quattro euro invece di 1,30. Anche in questo squilibrio fra biglietti e sussidi siamo fra gli ultimi in Europa. In realtà una legge del 1997 prescriverebbe alle società di trasporto pubblico locale di avere «entrate da traffico» (biglietti e abbonamenti) pari ad almeno un terzo dei costi operativi, ma a tutt’oggi resta ignorata o disattesa. Nei bilanci delle società questo dato non viene mai riportato con trasparenza e gli stessi costi operativi non sono indicati. Calcolandoli e stimando i ricavi da traffico emerge che Milano avrebbe una copertura dei costi al 53% (ma costi in aumento sensibile), Bologna al 42%, Torino quasi del 35%, mentre Roma e Napoli sono sotto la norma al 29% e al 24%. In nessuna di queste città sarebbe possibile pagare con biglietti e abbonamenti anche solo lo stipendio dei conducenti del bus, e in alcune neanche la metà di quello. Il resto è coperto da sussidi.
Socialmente, è ingiusto per un motivo in primo luogo topografico. Le reti del trasporto pubblico locale sono dense nei centri storici e rade in periferia; tendono dunque in proporzione a servirsene di più i benestanti che abitano nelle zone pregiate e costose delle città, mentre chi abita nei sobborghi riceve un servizio peggiore eppure finanzia con le proprie tasse quanto non viene coperto dal prezzo dei biglietti altrui. Aiuterebbe i Comuni come azionisti una vera lotta all’evasione contro chi viaggia gratis; ma i Comuni come soggetti politici la considerano impopolare. E dire che non sarebbe difficile: oggi esistono sensori che permettono di stimare quante persone viaggiano su ogni mezzo, a confronto di quante pagano. Ma ad oggi, chissà perché, nessuna grande città ha osato adottarli.