la Repubblica, 19 giugno 2016
Gli scarabocchi di Virzì, un pittore della domenica
«Vedo che lei è uno difficile». Osservando lo stupore sincero del giovane artista, lo sconosciuto prese il libretto degli assegni e vi scrisse sopra “un milione di lire”. Paolo Virzì aveva diciannove anni, e quella tavola di compensato dipinta coi pastelli a olio sul lungomare della sua Livorno, mare in tempesta dietro a un signore che legge il giornale, fu l’unico dipinto mai venduto in tutta la sua vita. «Era un gallerista importante di Roma, ma io non lo sapevo. Forse pensava volessi tirare sul prezzo, o forse voleva solo fare il gradasso. Fatto sta che mi si affacciò alle spalle, guardò il quadretto e fece l’offerta. Io, con quell’assegno in mano, mi sentii come il signor Bonaventura». Il disegno è compagno quotidiano di vita e di set per il regista toscano. Ma sulle pareti dell’ufficio minuscolo e colorato della sua “Motorino Amaranto”, nel quartiere romano dell’Ostiense, ci sono solo i suoi ritratti più cari. La madre Franca, un “selfie” di famiglia, un Pinocchio dal volto umanissimo. Nessuna traccia dei bozzetti fatti sui tanti set. La pazza gioia, Il capitale umano, Tutti i santi giorni sono solo fogli sparsi. «Non li custodisco. Quelli che vede sono gli scarti, i migliori se li portano via durante la lavorazione. Non esistono storyboard ordinati, solo schizzi estemporanei ad uso assolutamente pratico».
Cinema e disegno, disegno e cinema: come si sono intrecciate le sue due costanti artistiche?
«Credo di essere stato preso al Centro Sperimentale di cinematografia proprio perché sapevo scarabocchiare caricature. Durante una delle prove scritte di ammissione – eravamo in duemila nell’aula magna – mentre stò lì a rimuginare sul testo, faccio il ritrattino di un membro della commissione che intravedo laggiù. Alto, una figura da antico romano. Non lo so ancora, ma è lo sceneggiatore Leo Benvenuti. Dietro le mie spalle arriva un signore con gli occhialetti e la giacca di tweed. Mi prende la penna, corregge il naso – “è più piccolo” mi fa. Poi mi strappa il disegno, lo porta al docente e li vedo da lontano che se la ridacchiano insieme. Passo all’orale e solo allora capisco che il signore in tweed è Furio Scarpelli. Beh, ancora oggi sono convinto che se mi hanno preso è per quel disegnetto, il testo era una vera stronzata».
Quando ha iniziato a scarabocchiare?
«Da piccolissimo ero un viscerale di fumetti, ci dormivo abbracciato. Topolino e Alan Ford, e poi il trio Intrepido-Monello- Lanciostory. Mia madre me li comprava quando ero malato e passavo giornate meravigliose a leggerli a letto».
E il disegno “cinematografico”? Dopo aver passato l’ammissione al Centro sperimentale, poi come ha coltivato la sua passione per lo scarabocchio?
«Proprio crescendo accanto a quel signore con la giacca di tweed! Perché Scarpelli non è stato solo uno dei più grandi sceneggiatori italiani, ma anche un grandissimo illustratore. Per non parlare di un altro mio maestro al Centro, Ettore Scola. Ricordo ancora due suoi disegni sul tema “commedia italiana”. Erano due varianti del volto stilizzato di una signora. Uno pieno di ombre, l’altro brillante. Sotto il primo c’era scritto “commedia con dramma”, sotto l’altro “commedia leggera”. Per dire che già nel proporre l’immagine di un personaggio c’era da porsi il problema del tono, il timbro, la regia, il sottofondo. Quanto a me, i miei sono disegni tendenzialmente comici e ne faccio un uso esclusivamente funzionale. Sono vere e proprie comunicazioni ai costumisti, ai truccatori, a quelli che si occupano degli effetti speciali. E agli attori: li incoraggio così a dare una chiave canzonatoria al proprio personaggio, a guardarlo da tanti lati diversi, in quell’equilibrio tra tragedia e ironia che cerco di dare sempre ai miei film».
E come reagiscono gli attori? C’è una caricatura buffissima di Fabrizio Bentivoglio ne “Il capitale umano”...
«Lui ne era entusiasta, e credo sia partito proprio da quei disegni per costruire il suo personaggio. Voleva somigliargli. È uno che adora trasformarsi, si diverte e camuffare la voce, il portamento. Non è della scuola Mastroianni, e cioé quel tipo di attori che portano in dote, perennemente, la propria natura e indolenza, e di cui è allievo illustre Valerio Mastandrea. Bentivoglio, come anche Gifuni, è della scuola Volonté, quelli che in ogni film devono trasformarsi in qualcos’altro».
E Valeria Bruni Tedeschi? Come ha preso gli schizzi della signora Bernaschi, la ricca e filantropica signora de “Il capitale umano”?
«Valeria in particolare non ricordo, ma in generale credo che le donne amino meno essere trasformate in caricature. Io faccio scarabocchi, ritrattini e caricature in continuazione, ovunque mi trovi. A volte può capitare che una signora mi chieda di ritrarla. La vedo molto contenta mentre disegno, ma il sorriso si spegne quando glielo porgo. Credo che dovrei andarci un po’ più cauto con l’ironia».
Anche con sua moglie, Micaela Ramazzotti?
«Mah, forse no, a me pare che lei invece si diverta molto ad essere trasformata in fumetto comico dalle espressioni esagerate, le caricature che le ho fatto le appende dappertutto. E comunque non è la mia unica vittima in famiglia. Disegno molto anche i miei figli. E poi c’è la mia primogenita, Ottavia, designer, costumista e scenografa che vive a Londra da quattro anni e che a sua volta mi prende in giro con le sue caricature. E pure Jacopo, l’altro mio figlio, disegna».
Però lei non usa sempre lo stesso stile, perché?
«Dipende dall’uso che devo farne. A volte disegno a matita, a pennarello, altre volte sul tablet con certe bellissime “app” che mi ha fatto scoprire Gipi: lui adora gli acquerelli ma quando è in viaggio, o la moglie si stufa dello sporco, anche lui usa le tavolette digitali. Quando sono sul set invece mi capita di dover fare uno storyboard veloce. Per la scena de La pazza gioia in cui madre e figlio si buttano dal ponte, ho dovuto spiegare con un disegno quel che volevo al reparto degli effetti speciali. La stessa cosa è successa per Tutti i santi giorni nella scena con i neonati nella grotta. Più accurato, invece, il disegno dell’incontro tra la madre e il figlio sulla spiaggia: serviva a trasmettere a quelli della fotografia e dei costumi i toni e i colori, ragionavamo su come dovesse essere vestita Donatella, una sorta di lacera principessa da fiaba, e del tipo di luce».
Tra i registi-disegnatori c’è anche Marco Bellocchio...
«E no eh, non mi può paragonare ai maestri! Lui dipingeva anche prima di fare cinema. Si sente il suo stile fatto di impeti, dolore, sarcasmo».
E Scola?
«Ettore disegnatore era figlio, come Furio, delle riviste umoristiche del dopoguerra. Sono stupendi i suoi ritrattini malinconici e ironici dell’umanità anni ‘30 e ‘40, senti l’influenza di illustratori come Saul Steinberg. Le mie influenze sono invece tutte fumettistiche, soprattutto di quella stagione straordinaria dalla fine degli anni Settanta a metà anni Ottanta: Liberatore, Scozzari, Milo Manara, il tecnicamente più dotato, Crepax, il più antonioniano ed esistenzialista. Il maestro però è Andrea Pazienza, con il suo mondo comico e tragico, la forma del monologo interiore joyciano. A pensarci bene anche oggi, per me, i narratori—registi più grandi sono fumettari come Zerocalcare e Gipi».
E lei, dipinge?
«Sono un pittore della domenica, a casa. Non ho pretese, arrossisco solo a parlarne. Lascerò scritto di non tirarli fuori nemmeno dopo morto...Per La pazza gioia ho dipinto parecchio. I murales dallo stile naif, certi quadri nella casa di cura Villa Biondi, i paesaggi, le donne sdraiate...».
Qualcosa però conserva. I ritratti di sua madre, della sua famiglia, di Scarpelli. E poi Pinocchio. Perché?
«È uno dei miei sogni. Un mese fa mi sono ritrovato in treno con Matteo Garrone. Parlavamo dei nostri progetti, mi ha detto “farò Pinocchio”. Ho fatto un sospiro di sollievo e una telefonata al mio ufficio: “Va disdetta la riunione di mercoledì, se dio vuole Pinocchio lo fa Matteo”».
Perché il sospiro di sollievo?
«È un progetto che mi porto dietro da quasi vent’anni. Nel ‘97 mi convocarono i vertici Rai per un Pinocchio con un pupazzetto animato da Carlo Rambaldi. Poi non se ne fece nulla».
Perché tutti vogliono fare Pinocchio?
«Perché è una fiaba dolorosa, piena di amarezza e disperazione. Perché racconta l’impossibilità di essere felici e liberi, ci dice che il nostro destino è di essere schiavi e lavoratori. Credo che Matteo abbia perfettamente compreso l’animo nerissimo di Collodi».
E il suo di Pinocchio?
«L’appuntamento è solo rimandato. Magari tra dieci anni, magari quindici».