la Repubblica, 19 giugno 2016
Quella volta che i fratelli Lumiere non vollero vendere il loro cinematografo
«Giovanotto», disse il patriarca della famiglia con la luce nel cognome, «la nostra invenzione non è in vendita, ma mi ringrazi: per lei sarebbe la rovina. Il cinematografo non può avere alcun avvenire commerciale». Centovent’anni dopo i cinefili si accapigliano ancora su questa profezia di sventura clamorosamente smentita dalla storia. Come poteva Antoine Lumière, quella sera del 28 dicembre 1895, proprio quella che passò alla storia come il Natale del cinema (per Claude Lelouche fu «la sera in cui iniziò la storia del mondo»), come poteva essere così pessimista nei confronti della grande idea dei suoi due figli? O ingenuo, o imprevidente? Probabilmente non lo era.
«Questa idea dei Lumière come geniali ma un po’ sprovveduti padri di una creatura di cui non avrebbero intuito le potenzialità, è il più colossale errore d’interpretazione nella storia del cinema», s’inalbera Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna. La mostra che aprirà il 24 giugno nei sottopassi di piazza Maggiore, trasformati in “tunnel del cinema”, sarà la confutazione di quella calunnia: «Al contrario, intuirono perfettamente il valore della loro invenzione. Proprio per questo non la volevano vendere».
L’uomo che quella sera voleva comprare il cinematografo si chiamava Georges Méliès. Che invece, nel canone della cultura cinematografica, è esaltato come il visionario che prese in mano una curiosità tecnica e la trasformò nella più grande avventura dell’immaginario del secolo breve. Fondata da guru come Sadoul e Godard, la grande opposizione Lumière-Méliès, due genealogie e due ideologie del cinema, tecnica contro fantasia, realtà contro fiction, documento contro arte, è diventata un classico. Che forse è giunta l’ora di discutere, o forse solo riformattare.
Che cosa cercavano dunque i due figli di Antoine, ossia Auguste e Louis Lumière, il ricciolino e il biondino, inseparabili come Bouvard e Pécuchet, inventori fino all’ultima goccia di sangue, cosa pensavano di aver inventato con quel «macinino di immagini» che dava vita alle fotografie? «Desideravo solo riprodurre la vita», scrisse cinquant’anni dopo l’anziano Louis proprio a Georges Sadoul, «i soggetti che ho scelto per i miei film ne sono la prova». Conosciamo il contenuto di quei 1440 “corti” che in parte (120 rulli, ora raccolti in un prezioso dvd) l’Institut Lumière di Lione presieduto da Bertrand Tavernier ha affidato alle sapienti mani della Cineteca Bolognese per un restauro splendente.
Di vita, lì ce n’è a volontà. Ma è quasi sempre la vita quotidiana, più ordinaria e familiare. L’Arrivo del treno in stazione, la sequenza che tutti ricordano, quella che si dice (con qualche esagerazione) facesse scappare gli spettatori dalla sala, in realtà fu girata abbastanza tardi e non voleva avere quell’effetto. Scorriamo l’elenco: la colazione del bebè in giardino, ragazzi che fanno il bagno in mare, papà Antoine che si accende il sigaro, bambini che si tirano i capelli… Sì, certo, proprio così, sembrano i soggetti dei filmini di famiglia, i super8 del benessere di sessant’anni dopo. Il proto-cinema non voleva stupire con quel che mostrava, ma per come lo mostrava: l’album delle foto di famiglia, sorpresa, si muoveva.
Era dunque questa la vocazione del cinema, nei pensieri dei Lumière? Quella di medium privato, giocattolo domestico, accessorio per l’auto- rispecchiamento compiaciuto della famiglia borghese? Del resto, quella dei Lumière era una grande famiglia patriarcale che amava auto-rappresentare il proprio bonheur con le invenzioni tecnologiche più avanzate della ditta, per esempio l’Autochrome, primo procedimento fotografico a colori utilizzabile da qualsiasi padre di famiglia. Anche il cinema forse era stato inventato per questo? La stampa dell’epoca sembrò pensarlo: “Quando tutti potranno riprendere i loro cari, non più fissandoli immobili, neanche la morte sarà più assoluta”, declamò La Poste all’indomani della prima proiezione.
Ora però tocca a noi non fare gli ingenui. Lo sguardo dei Lumière registi è documentario, certo: ma c’è sapienza dietro la cinepresa. L’Uscita dalle officine, il primo film Lumière, fu girato tre volte, e qualcosa nella sequenza tradisce un copione nascosto. Che del resto era esplicito nelle scenette umoristiche, tutt’altro che colte al volo: quella del giardiniere che annaffia i bambini ebbe un vero e proprio script, tanto che il suo protagonista, François Clerc, rivendicò poi con qualche ragione di essere stato «il primo attore mondiale del cinema».
Che fosse davvero il giardiniere di casa Lumière, così come del resto familiari e amici recitavano se stessi in altre scenette, non cambia. «I Lumière inventarono il quadro, lo spazio scenico con cui il cinema racconta il mondo», insiste Farinelli. Del resto, il catalogo della ditta comprendeva anche piccoli film di fiction a soggetto storico (Nerone che avvelena le schiave, la firma del trattato di Campoformio) o religioso (un’ambiziosa Passione in tredici quadri).
Dunque anche per i Lumière il cinema era spettacolo. Ma era spettacolo del mondo. Nei soli quindici mesi in cui i due fratelli (prima di rendersi conto che quello di imprenditori teatrali «non era il nostro mestiere» e di vendere tutto a Pathè e Gaumont) cercarono di sfruttare la loro invenzione come spettacolo di sala, istruirono cinquanta operatori e li spedirono a tutte le latitudini (per l’Italia Vittorio Calcina) a raccogliere vedute animate delle esotiche meraviglie del pianeta. Inventando, tra l’altro, il panorama come piano-sequenza, croce e delizia del cineamatore in vacanza. Insomma, mentre Méliès, dopo essersi procurato altrimenti le sue cineprese, inventava fantasmagorici mondi di cartapesta e pirotecnie nella sua serra-teatro di Montreuil, i Lumière collezionavano il mondo reale come meraviglia in sé. Lasciamolo dire ancora a Godard: «Méliès era l’ordinario dello straordinario e Lumière lo straordinario dell’ordinario».
Sta di fatto che i Lumière non riuscirono ad essere, come scrisse Henri Langlois, «assieme Mozart, Stradivari e Paganini», e il cinema diventò la settima arte, o la decima musa, dopo che loro furono tornati negli abiti che si sentivano più comodi, quelli degli inventori per in quali il cinema era stato soprattutto «uno splendido problema da risolvere». Eppure, per il modo in cui lo risolsero, il cinema che conosciamo oggi deve tutto ai due fratelli di Lione. La lotta per la primogenitura fu in effetti feroce, molti i pretendenti, molte le macchine animate prima della loro, ma nella sua bonaria sicurezza Louis ne fece piazza pulita con una frase: «Qualcuno può dire, prima di noi, di essere andato al cinema?». Anche Edison, ferrigno nel difendere i brevetti del suo Kinetoscopio, aveva inventato in realtà solo uno scatolone dove il movimento si poteva sbirciare uno alla volta, da soli, quasi dal buco della serratura.
A chi pensa che vinse Méliès bisognerà però ricordare che in milioni di cassetti di comò, dentro milioni di bobine private che qualche benemerita istituzione (sempre a Bologna, Home Movies) raccoglie e salva, un’altra storia del cinema ha continuato a vivere: lo spettacolo della vita quotidiana in movimento, del bacio degli sposi, dei bambini che rincorrono le onde, che spengono le candeline sulla torta. Il cinema-specchio della vita quotidiana oggi viene catturato dagli occhietti di quelle cineprese ultra-performanti che continuiamo a chiamare telefonini. La differenza è che la sala cinematografica dove i fratelli rapivano le emozioni collettive della gente comune per lo spettacolo della vita comune, oggi si è frantumata in miliardi di minuscoli schermi individuali e tascabili. Che alla fine abbia vinto Edison?