19 giugno 2016
In morte di Vittorio Merloni
Sergio Bocconi per il Corriere della Sera
Fra qualche giorno sarà presentato a Milano un libro che lo definisce un «imprenditore olivettiano». Ed è forse questa un’immagine particolarmente adatta per descrivere Vittorio Merloni, morto ieri a Fabriano a 83 anni dopo una lunga malattia. Ex presidente di Confindustria, è stato il re degli elettrodomestici italiani, costruttore di una multinazionale che fra Russia, Turchia e Cina ha conquistato le prime posizioni fra i big globali del «bianco», interprete di una governance che amava definire «family public company», protagonista di un capitalismo innovatore e responsabile, non tayloristico e aperto al «sociale» che ha contribuito a far crescere un’Italia industriale studiata anche negli Stati Uniti. Oggi gli operai formeranno il picchetto d’onore per l’ultimo saluto nello stabilimento di Fabriano. I funerali si terranno domani pomeriggio.
Nella storia di Vittorio Merloni, sposato con Franca Carloni e padre di Maria Paola, Andrea, Antonella e Aristide, si può leggere in effetti una pagina significativa della imprenditoria e della classe dirigente del nostro Paese. Di una élite che lui stesso ha contribuito a formare diventando fra i principali sponsor dell’Istao, l’Istituto Adriano Olivetti, che dagli anni Sessanta svolge ad Ancona attività di formazione e ricerca economico-aziendale.
Una storia che presenta un mix di elementi tipici e atipici del nostro capitalismo. Vittorio e i suoi due fratelli, Francesco e Antonio, hanno cominciato a lavorare nell’azienda fondata nel 1930 dal padre Aristide, originariamente fabbrica di bilance industriali poi entrata negli elettrodomestici con il marchio Ariston. Retribuiti come impiegati: gli utili si reinvestono. Alla morte del capostipite, nel 1970, ciò che è diventato un gruppo viene diviso in tre: a Vittorio va la guida della Merloni elettrodomestici, a Francesco la divisione termosanitari e ad Antonio quella meccanica.
Lo sviluppo della Merloni ha luogo anche con acquisizioni che la portano all’estero: in Italia la Indesit, in Francia Scholtés, Hotpoint in Gran Bretagna e Stinol in Russia. Il gruppo diventa fra i primi produttori del «bianco» in Europa e Vittorio, nel frattempo, gioca altre due carte decisive. Dall’80 all’84 è presidente di Confindustria (dopo Guido Carli) e nel corso del suo mandato viene disdetto l’accordo sul punto unico di contingenza, primo passo verso l’abolizione della scala mobile. Con una scelta inconsueta in un’impresa familiare, nel 1996 affida i poteri a un manager esterno, Francesco Caio. È il passo verso la «family public company», che non prevede i figli in azienda. E quando tre anni dopo Caio va nel mondo Internet, in Merloni approda Andrea Guerra. L’amministratore delegato lascia nel 2004 per Luxottica. Al suo posto sale Marco Milani e Vittorio Merloni cambia il brand in Indesit company. Meno family.
Eclettico e «visionario», tanto è vero che nel suo discorso d’insediamento a presidente di Confindustria (ripreso nel volume edito da il Mulino e presentato da Istao e Politecnico) definisce «la capacità di introdurre innovazioni» il modo per crescere e migliorare il benessere, esplora anzitempo frontiere geografiche e imprenditoriali. Così nel 1975 va in Cina con Giovanni Agnelli e Leopoldo Pirelli e incontra Deng Xiaoping. E Nel Duemila disegna un futuro per l’azienda costruito su un network energia-finanza-web («tutto in rete e lavatrici in affitto») con l’addio agli elettrodomestici-commodity. È a questa figura d’imprenditore che ieri l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha riconosciuto «apertura e lungimiranza di idee» e la presidente della Camera Laura Boldrini ha rivolto parole di stima («lascia una traccia profonda nell’industria del Paese»). Ed è alla figura legata al territorio e alle responsabilità sociali che la Cgil ha destinato il messaggio di cordoglio: «Con lui scompare un grande imprenditore».
Ma arrivano crisi e malattia. Così Vittorio, al quale i dipendenti nel 2003 per i 70 anni regalano la Ferrari di Schumacher (senza motore), lascia progressivamente. E con lui arretra la famiglia, che ha avuto nel gruppo ruolo ma non di gestione. Nel 2014 infine la scelta di vendere all’americana Whirlpool. Una decisione sofferta. Che ha lasciato un segno nel Paese.
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Dario Di Vico per il Corriere della Sera
Notizie dolorose come la scomparsa di Vittorio Merloni generano un diffuso sentimento di nostalgia. Dovuta in primo luogo al rimpianto per la perdita di una figura di imprenditore e uomo coraggioso che ha combattuto per anni con la malattia e in seconda battuta perché ci resta la sensazione che il tempo ci stia portando via uno a uno i grandi capitani dell’industria senza avere il giusto rimpiazzo. Ci sentiamo quindi nostalgici di un’età dell’oro che ci ha visto diventare una potenza industriale, ci ha permesso di primeggiare in tanti settori e temiamo che il futuro non ci riservi lo stesso podio. Per avere conferma dell’indiscutibile valore di Merloni basta rileggere il suo discorso di insediamento alla presidenza della Confindustria del 6 maggio 1980. Scuola, fabbrica intelligente, dimensioni di impresa e politica industriale: come ha osservato Romano Prodi «sembra scritto adesso» e, purtroppo, ci ricorda che le domande che Merloni poneva all’intera classe dirigente politica/imprenditoriale ben 36 anni fa sono ancora senza risposta. Nel frattempo anche il settore degli elettrodomestici che allora aveva la forza di esprimere la leadership confindustriale non ha saputo, come invece Merloni avrebbe desiderato, tenere il passo delle novità dell’economia globale. Il potere di mercato si è spostato a valle premiando chi ha il contatto con il cliente (e non chi produce) e soprattutto si è generato uno stop nella capacità di immettere tecnologia e innovazione nell’industria del bianco. Una lettera inviata da Merloni ai vertici della Apple, spuntata fuori di recente, ci ha fatto sapere come Vittorio già nel ‘92 avesse in testa una profonda trasformazione delle macchine per il lavaggio e pensasse proprio agli americani per realizzare assieme qualcosa di assolutamente rivoluzionario, una Lavintosh che fosse perfetta sinergia tra meccanica ed informatica. I suoi progetti non sono andati avanti, il settore si è dovuto concentrare e alla fine anche il gruppo di Fabriano è stato acquisito dagli statunitensi della Whirlpool ma nonostante tutto ciò Merloni ci ha lasciato qualcosa di inestimabile, qualcosa che può servire a mitigare la nostalgia di oggi. Ci ha lasciato il format stesso delle «multinazionali tascabili». E’ dall’osservazione dell’esperienza marchigiana infatti che Peppino Turani a metà degli Anni 90 coniò quell’espressione che poi avrebbe attraversato i lustri e sarebbe arrivata fino ai giorni nostri ancora piena di originalità e fascino. Sono loro, le nostre medio-grandi imprese globali, quelle che hanno saputo coniugare la taglia media con l’internazionalizzazione, il radicamento territoriale con la visione globale, le famiglie fondatrici con i manager, a rappresentare oggi il miglior asset di cui disponiamo nel risiko della manifattura mondiale dove al tradizionale confronto con i tedeschi si è aggiunta la dura partita da giocare con i cinesi. Da sole le «tascabili» non sono certo una polizza contro il declino, sono però realtà che hanno saputo resistere negli anni della Grande Crisi e uscirne persino migliorate. Proporre proprio oggi un paragone tra i leader di queste aziende e la generazione dei Vittorio Merloni non sarebbe elegante e comunque le discontinuità sono così ampie e numerose da sconsigliare a chiunque l’esercizio, resta però la sensazione che le nostre multinazionali siano ancora largamente snobbate. In tanti fanno riferimento alle famose 4 mila medie imprese del campione Mediobanca ma alla fine pochi ci credono fino in fondo. E il loro scetticismo finisce per essere compagno della nostra nostalgia.
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Paolo Stefanato per il Giornale
Ovunque si trovasse a Fabriano, a Roma, o in barca alle Bahamas Vittorio Merloni riceveva ogni sera, puntuale, il numero degli elettrodomestici fabbricati in tutti i suoi stabilimenti: un bilancio quotidiano, un flash sull’andamento della produzione. Osservava attentamente interrompendo qualunque attività. Se i conti erano in linea con le previsioni, nessun problema. Ma se qualcosa non andava, la mattina dopo per qualcuno erano dolori. Aveva l’occhio vigile del padrone anche dopo aver delegato il comando. Imprenditore vero.
Vittorio Merloni è spirato ieri a 83 anni. Dal 2010 si era ritirato dalla vita attiva per problemi di salute, restando comunque a lungo presidente onorario di Indesit Company, di cui controllava la maggioranza assoluta e che nei momenti più floridi arrivò a fatturare oltre 3,5 miliardi. Nel 2014 il gruppo è passato all’americana Whirlpool; i figli Andrea, Aristide, Anna Paola e Antonella hanno preferito disimpegnarsi (incassando 758 milioni per il 60%).
Sebbene fosse succeduto, insieme con i fratelli Antonio e Francesco, alle attività industriali del padre Aristide (bilance, bombole di gas), Vittorio era a pieno titolo un fondatore perchè fu lui ad avviarsi sulla strada degli elettrodomestici, con i quali raggiunse ampie fortune. Prima con il marchio Ariston, poi con Indesit. E, da imprenditore vero, il suo rapporto con l’azienda e la produzione era vivo e reale: la finanza veniva dopo. Una volta all’anno visitava ogni stabilimento, in tutto il mondo, per farsi sentire presente ovunque.
Merloni è stato tra gli esponenti di maggior spicco di quell’imprenditoria familiare italiana sana, capace, visionaria. Come tale, dal 1980 all’84 fu presidente di Confindustria, in un’epoca in cui l’organizzazione e i suoi rappresentanti esprimevano grande autorevolezza e forte peso politico. Aveva modi signorili, fascino personale e una lieve erre moscia che lo rendevano in qualche modo simile a Gianni Agnelli. Era attento al dialogo e alla negoziazione. Confindustria è stato il suo impegno politico, come politici sono stati i due fratelli: Francesco, a lungo senatore Dc, poi nell’Ulivo, e ministro; Antonio sindaco di Fabriano. Mentre una figlia di Vittorio, Maria Paola, è deputato (eletta con Scelta Civica).
La storia degli elettrodomestici Ariston comincia negli anni Sessanta, una generazione successiva rispetto ai Borghi (Ignis), Zanussi (Rex), Fumagalli (Candy) e fa tesoro dei loro successi. L’azienda cresce e si internazionalizza anche a colpi di acquisizioni: nel 1985 compra Indesit (in amministrazione controllata e ben più grande di Ariston), poi società in Turchia, HotPoint in Gran Bretagna, Stinol in Russia. Negli anni Ottanta i frigoriferi esportati in Cina sono talmente familiari che il marchio Ariston (meglio: Aliston) diventa il nome comune per il frigo in sé. Merloni, presidente e ad fino al 1996, decide (non sempre le imprese familiari sanno farlo) di affidare l’azienda ai manager, e nelle scelte ha fortuna: prima arriva Francesco Caio, oggi ad di Poste italiane, poi un giovanissimo Andrea Guerra, già interno all’azienda, che in seguito passerà a Luxottica. La società nel 1987 fu poi quotata a Piazza Affari, senza però far scendere la famiglia sotto la maggioranza.
Collezionista di Ferrari, appassionato di viaggi, amante della barca, corteggiato dall’universo femminile, Merloni si divertiva a raccogliere piccoli soprammobili a forma di toro, l’animale delle sfide, della forza, dei rialzi in Borsa. Appeso fuori dal suo ufficio, un regalo della Walt Disney: un fumetto intitolato Zio Paperone e gli eletrodomestici intelligenti, dove chiaramente zio Paperone era riferito a lui, Mister Indesit.
Vittorio Merloni andò a produrre nella Russia sovietica prima della Fiat dell’Avvocato Agnelli. Del capitalista provinciale aveva l’intuito, l’elasticità, la capacità di annusare i mutamenti. La voglia di crescere, la fame di successo. Sapeva innovare con un rapporto quasi simbiotico con i consumatori. Li ha visti cambiare e li ha cambiati, li ha accompagnati e assecondati, finché ha potuto, come sanno fare solo i capitalisti di razza. Vittorio Merloni è stato l’emblema del quarto capitalismo tricolore.
Quello delle multinazionali tascabili, fortemente ancorate al territorio nazionale, che, con spregiudicatezza, hanno sfidato i mercati divenuti infine globali. Alle quali – proprio per questa loro sfrontatezza - si può perdonare anche qualche ambizione finanziaria di troppo. Qualche scivolata solo per il gusto di star sedute nello stesso salotto dei capitalisti blasonati. Lui partì da Fabriano (dove è rimasto tutta la vita), sugli Appennini marchigiani, trasfor-mando radicalmente l’azienda di famiglia. È morto ieri, a 83 anni, dopo una lunga, feroce, malattia; dopo aver ceduto lo scettro dell’impresa, dentro un passaggio generazionale non riuscito, e aver visto la sua Indesit finire in mano alla multinazionale americana della Whirlpool. La chiusura di un cerchio. La fine di una stagione. «Ci manchi», avevano scritto sulle magliette raffiguranti anche il suo volto gli operai della Indesit durante la durissima vertenza di qualche anno fa. Conferma di un capitalismo paternalistico che consentì quella «industrializzazione senza fratture», per dirla con l’economista Giorgio Fuà. L’ingresso in fabbrica dei cosiddetti “metalmezzadri”, un po’ operai, un po’ contadini. Un capitalismo dal volto umano che adattò, ammorbidendole, le ferree regole della catena di montaggio a una comunità di origine rurale.
Dell’azienda fondata da padre Aristide, che all’inizio produceva bascule e bombole a gas, Vittorio Merloni ereditò il settore degli elettrodomestici, piani cucina, frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie. L’Ariston è stato uno dei marchi simboli (la casetta stilizzata) del miracolo economico italiano. La cavalcata della classe media verso l’agiatezza, la cetomeditizzazione della società, dirà qualche anno dopo il Censis. La Merloni l’accompagna. Vittorio investe nella pubblicità. «Spende tutti i miei soldi», dichiarò il padre Aristide. Ma i numeri saranno dalla parte del figlio: il fatturato passò dai 24,5 miliardi del 1970 ai 227 del 1980. Tra i consulenti per il marketing c’è anche il sociologo Francesco Alberoni. Merloni accresce le dimensioni, acquista nuovi marchi (Indesit, Philco, Stinol, Hotpoint), va a produrre nei paesi del blocco sovietico a economia socialista, si quota in Borsa.
Nel 1980 l’ascesa sulla scena nazionale: presidente della Confindustria, dopo Guido Carli, già governatore della Banca d’Italia. Quella è ancora la Confindustria delle grandi famiglie industriali (Agnelli, Pirelli, Orlando, ecc), Merloni è per tanti versi un outsider. È il rappresentante degli imprenditori piccoli- medi, non dei grandi. La sua nomina è il riconoscimento della centralità negli assetti produttivi delle medie imprese, delle multinazionali tascabili, appunto. Merloni è l’espressione di questo nuovo made in Italy, impegnato in settori maturi, ma in grado di innovare nei processi e nei modelli produttivi. La Merloni all’epoca ha cinquemila dipendenti, quattordici stabilimenti di cui tre all’estero. Vittorio Merloni, sia chiaro, non è un parvenu. Ha rapporti stabili e solidi con la Democrazia cristiana. Nino Andreatta e Romano Prodi sono spesso consultati. E d’altra parte il padre Aristide e il fratello Angelo sono stati parlamentari dc. Una sensibilità politica che serve a Vittorio nella sua battaglia contro la scala mobile. E il suo maggiore risultato negli anni di Viale dell’Astronomia fu l’accordo sul decreto di San Valentino, il taglio dei punti di contingenza voluto da Bettino Craxi senza l’intesa con la Cgil di area comunista. «L’unico atto vero di politica industriale», disse Merloni lasciando la presidenza. Poi la Merloni diventa Indesit Company. Nel 2013 l’inizio della parabola discendente. Vittorio Merloni è già malato. L’industria del “bianco” italiana non regge la nuova competizione. D’altra parte Borghi (Ignis) e Zanussi avevano già mollato da molto tempo.
Con le piccole dimensioni non si vince più nel mondo. E all’appuntamento con la robotica le aziende degli elettrodomestici italiane sono arrivate in ritardo
Giacomo Galeazzi per La Stampa «Ha trasformato in multinazionale una piccola azienda. Di imprenditori come lui ne nasce uno ogni mezzo secolo», sintetizza il sociologo Giuseppe De Rita che, con gli economisti Giorgio Fuà e Beniamino Andreatta, aveva teorizzato quella «via adriatica allo sviluppo» che Vittorio Merloni ha tramutato in fabbriche innovative e in migliaia di posti di lavoro negli Anni 70 e 80.
Da capo del gruppo Indesit e presidente di Confindustria, l’industriale che si è spento ieri a 83 anni nella sua Fabriano e diceva di essere «il più grande tra i piccoli» ha lasciato un’impronta inconfondibile nella storia economica e politica d’Italia. Oggi la camera ardente sarà allestita nello storico stabilimento di Albacina, quello da cui il «modello marchigiano» ha avviato il boom poi esteso al Nord-Est.«Negli anni di piombo, creò il nuovo portando in Italia modelli di produzione all’avanguardia - spiega il fondatore del Censis -. Ha cancellato la scala mobile e, anche con acquisizioni azzeccate, è diventato il 3° terzo produttore mondiale di elettrodomestici». Appena varcata la soglia dei 70 anni, l’Alzheimer lo costringe ad eclissarsi e senza di lui il gruppo marchigiano imbocca una strada che lo conduce alla cessione nel 2014 agli americani della Whirlpool. Durante uno sciopero i lavoratori indossano una t-shirt con il volto di Vittorio e la scritta «Ci manchi». Il manager Andrea Guerra, già ad di Luxottica e consulente del governo Renzi, oggi amministra Eataly. Il suo decennio alla guida dell’Indesit coincide con la maggior internazionalizzazione del gruppo.
«Se non si fosse ammalato Vittorio, a quest’ora saremmo stati noi ad esserci comprati la Whirlpool e non il contrario - afferma -. Aveva una curiosità inesauribile, girava il mondo per studiare le ultime frontiere: dal digitale al controllo di gestione. Andava in America all’Ibm per conoscere i sistemi informatici, non si fermava mai. Aveva in testa sempre la sfida imprenditoriale successiva tra sacrifici, investimenti, prospettive di lungo periodo». E anche in una sconfitta, evidenzia Guerra, «trovava il lato positivo». Una lezione per l’intero capitalismo italiano: «Ha avuto strategia e generosità lasciando spazio ad un management operativo vero». Attento agli scenari geopolitici e culturali, Merloni aveva tra gli interlocutori anche influenti diplomatici, come l’ex ministro vaticano degli Esteri, Achille Silvestrini e «think tank» accademici. Cattolico impegnato nel sociale, si è occupato in particolare della formazione dei giovani. Ai tifosi di calcio resta soprattutto il ricordo dell’Ariston sponsor della Juventus di Michel Platini e Dino Zoff. Con quel marchio, infatti, Fabriano divenne la capitale del «bianco» traghettando un’intera regione dall’economia mezzadrile a quella industriale.
Così nell’ultimo decennio è divenuto proverbiale nelle Marche il rimpianto per l’uscita di scena obbligata di Merloni. «Con lui in campo la crisi non avrebbe prodotto danni simili», è la convinzione diffusa nell’opinione pubblica ed anche tra sindacati e forze politiche. Per la Cgil «di imprenditori come Vittorio Merloni il Paese ha oggi un gran bisogno: riuscì trasformare la sua azienda da realtà regionale a leader mondiale».
Vittorio Merloni è stato un “pioniere” della Confindustria “moderna”, come è possibile definire la nostra Confindustria, quella che ancora oggi, con la presidenza di Vincenzo Boccia, resta una grande ed autorevole rappresentanza delle imprese italiane. Ho conosciuto Vittorio un giorno in cui eravamo casualmente in fila affiancati per entrare nell’Auditorium della Tecnica. Continua pagina 21
Continua da pagina 1 Ho conosciuto Vittorio un giorno in cui eravamo casualmente in fila affiancati per entrare nell’Auditorium della Tecnica, in occasione di un’assemblea confindustriale, forse quella del passaggio del testimone da Agnelli a Carli.
Una Confindustria che, con il documento Una politica per l’industria e La Riforma Pirelli (che tra l’altro istituzionalizzò 46 anni or sono il rinnovamento introducendo il limite massimo di 4 anni per il mandato presidenziale!), aveva anticipato i tempi ed affrontato il mare aperto delle problematiche sociali conseguenti al miracolo industriale, nonché delle contestazioni prima sindacali e poi studentesche. Ma anche una Confindustria che non aveva ancora consolidato la democrazia interna né un gruppo dirigente autonomo, come quello che emergerà, naturalmente, dall’impegno dei Giovani Imprenditori e della Piccola Industria, come sarebbe poi accaduto negli anni ’90 con l’elezione prima dello scrivente e poi di Giorgio, Antonio, Emma ed infine Enzo, con i positivi innesti di due colleghi (Luca e Giorgio) che, pur non provenendo da quelle realtà, avevano nel frattempo maturato una forte esperienza associativa nel territorio.
Vittorio fu un pioniere di questo processo; dopo le scelte difficili dell’Avvocato Agnelli e del Senatore Carli (conseguenti alla rinuncia di Ernesto Cianci in seguito alle votazioni in Giunta); apprezzato dall’Avvocato (che ne aveva intuito, nel corso di un viaggio confindustriale effettuato in Cina nel lontano 1977, il valore anche aziendale di multinazionale tascabile, come Vittorio stesso amava definire la propria impresa), indicato dai Giovani Imprenditori da me guidati tra i sei colleghi potenzialmente eleggibili alla presidenza (“l’unico democristiano che voterei come Presidente”, affermava il compianto amico Piero Pozzoli), proposto formalmente dal Comitato per il Mezzogiorno, fu eletto Presidente nel 1980.
La Confindustria di Vittorio fu quella di un mondo che cambia: basta ricordare l’organizzazione manageriale impressa alla struttura, i confronti (e le votazioni in contraddittorio) in un Consiglio Direttivo in cui i rappresentanti di grandi imprese o di grandi categorie talvolta andavano in minoranza (come nel primo complesso accordo sulla scala mobile) oppure la sospensione dalla organizzazione di alcune imprese grafiche per aver firmato contratti aziendali in dissonanza con gli indirizzi associativi. Ma soprattutto Vittorio fu l’iniziatore della grande progettualità del Centro Studi, non più concentrato soltanto sugli aspetti economici, ma anche su quelli sociali ed istituzionali, con la prima ricerca “Orizzonte 90” presentata e discussa nel 1983 a Milano in Fiera nel convegno “Incontro sul futuro” a cui parteciparono il Presidente Pertini e il Cardinale Martini.
Vittorio è stato un grande imprenditore e insieme un grande Presidente di Confindustria, due impegni personali che richiedono caratteristiche molto diverse (contrariamente a quello che superficialmente alcuni ritengono), che Egli seppe svolgere al meglio prima che la malattia inesorabile, troppo rapidamente, gli impedisse di completare l’opera, obbligando recentemente la famiglia a scegliere di integrare l’azienda in un grande gruppo internazionale.
Un grande Presidente di Confindustria molto attento al sociale, come dimostrò nell’iniziativa di promuovere investimenti nelle aree terremotate dell’Irpinia, che raccolse all’epoca oltre 7 miliardi di lire dalle imprese associate, a cui si affiancarono altri 5 miliardi delle aziende a partecipazione statale, e che consentì la promozione per la localizzazione in quelle aree di grandi gruppi ancora positivamente attivi.
Pur essendo soltanto il Presidente dei Giovani Imprenditori, l’amicizia personale che si era consolidata a livello familiare e la complessità delle sfide del contesto politico - con le BR che minacciavano la libertà dell’attività politica oltre che l’integrità personale di imprenditori e manager - ebbi la fortuna di partecipare attivamente al suo quadriennio, imparando molto. Così come molto ho imparato dal Vittorio Merloni Past President: dopo la conclusione della sua Presidenza la tendenza delle grandi imprese a ricostituire nei fatti la “torretta”, scegliendo in circoli ristretti, si scontrava con la esuberanza e la irresistibile propensione al cambiamento di noi giovani e con la presenza sempre più attiva della Piccola Industria.
L’equilibrio che sembrava essersi raggiunto tra l’Avvocato Agnelli (di fatto il monarca illuminato delle grandi imprese) e le nuove generazioni, i Pozzoli, i Lombardi e tanti altri amici, era spesso messo in discussione, ma l’intelligenza e la serenità di Vittorio facevano riflettere tutti un momento prima di ogni possibile deflagrazione associativa, consentendo in quel periodo la nomina a Presidenti di autorevoli colleghi quali Lucchini e Pininfarina.
Un grande Presidente, un grande Amico, una persona per bene ha lasciato Franca, Maria Paola, Antonella, Aristide ed Andrea, ma ha lasciato anche tutti gli imprenditori italiani che hanno avuto la fortuna di conoscerlo.
Impegniamoci ad essere degni della sua memoria e del suo insegnamento.