Libero, 20 giugno 2016
«Ho cucinato per re, regine, capi di stato e carcerati». Intervista a Filippo La Mantia, il cuoco che sussurra ai frullatori
«A 13 anni già andavo a fare la spesa al mercato. La scelta delle “materie prime”, era uno dei momenti più belli della giornata, ricordo poi la gioia che provavo nel tagliuzzare tutto. Cucinare è una passione che ho ereditato da mio padre. Lui era un sarto, ma il suo tempo libero lo trascorreva a inventare ricette. Purtroppo l’ho perso, avevo solo 24 anni, mi ha lasciato un vuoto indescrivibile. Non dimenticherò mai i miei “primi passi ai fornelli” accanto a lui...».
Filippo La Mantia, classe 1960 («un’ottima annata»), cuoco di professione (guai a chiamarlo chef), qualcuno lo ha già soprannominato l’uomo che sussurra ai frullatori, per la sua mania di frullare ogni cosa, nella sua cucina non usa né aglio né cipolla. Nato e cresciuto a Palermo, dove il buon cibo «è denominatore comune di tradizione, amore e convivia-lità».
Come tutti i siciliani, è di poche parole e allergico ai pettegolezzi. Un passato da fotoreporter di cronaca nera, fu uno dei primi ad arrivare sul luogo dell’omicidio del generale Dalla Chiesa. Qualche tempo dopo finì in carcere, accusato di essere complice dell’assassinio del commissario di polizia Ninni Cassarà perché gli spari partirono da un appartamento nel quale aveva vissuto ma che aveva lasciato otto mesi prima. A scagionarlo fu Giovanni Falcone. Nei pochi mesi all’Ucciardone ha cucinato per i detenuti «qualsiasi ricetta potesse far dimenticare loro di essere in una cella e farli sentire a casa».
Ne vuole parlare?
«Ricordare le tradizioni di famiglia attraverso il cibo era fondamentale. In estate non mancavano mai la pasta al sugo di pomodoro e melanzane e il pesce spada. Mentre gli involtini di vitello e il pollo in tegame erano tra i piatti che cucinavamo più spesso, insieme alle frittate».
Passiamo alla sua esperienza romana…
«Devo tutto alla Città Eterna. Un po’ per gioco e un po’ per curiosità, ho iniziato nel 2011 a preparare cene nelle case private romane. Lì ho scoperto il centro assoluto dell’incontro: personaggi del cinema, della finanza, della cultura, dell’arte, tutti insieme seduti allo stesso tavolo, non necessariamente per un evento speciale. A Roma si esce allo scoperto, senza tirarsela troppo. I romani sanno apprezzare il buon cibo e la buona compagnia. Nessuno ti guarda dall’alto in basso. Nessuno domanda da dove vieni e qual è il tuo conto in banca».
Per chi preparava pranzi e pranzetti? Ride…
«Re, regine, capi di Stato... Roma mi ha permesso di cucinare in residenze bellissime. E di divertirmi lavorando, cosa rara».
Poi è diventato chef dell’Hotel Majestic, meta delle cene politiche che contano, chissà che pezzi da novanta avrà sfamato? Sorride. Da buon siciliano sa che il silenzio è d’oro…
«Posso dirle però la differenza tra Roma e Milano. I milanesi sono più diffidenti, e per conquistarli ti devi impegnare molto… ti studiano per giorni, settimane e poi se gli piaci bene, altrimenti ti devi arrendere. All’inizio pensavo che al buon cibo preferissero i bei posti chic. Ma forse non è neanche così. Io comunque ho cercato di proporre entrambe le cose».
Il suo ristorante milanese in piazza Risorgimento è sempre pieno. È stato un po’ da megalomani dare il proprio nome al ristorante. Non crede? Ride.
«Non immaginavo di costruire questo mostro di 1800 metri quadrati su due piani, disegnati da Pietro Lissoni».
Ha scelto l’ex Gold di Dolce e Gabbana, impegnativo. Gli stilisti li ha incontrati?
«Mai. Comunque il mio non è semplicemente un ristorante, è un insieme di 44 persone, 14 tra cuochi e pasticceri. Siamo aperti dalla colazione mattutina al dopocena. Non ci sono regole, né orari. Si può venire e mangiare a qualsiasi ora».
Qualche difficoltà all’inizio?
«Se avessi cominciato con un’aria più glamour forse avrei spiccato il volo prima. Ma ho puntato soprattutto sulla buona cucina. Non ero preparato a tutto quello che succedeva intorno. Ho preso confidenza con la gente molto lentamente. I milanesi sono frenetici, si rilassano poco».
Non ha pensato di ospitare qualche gatto, sono animali anti-stress, basta coccolarli un po’ per sentirsi subito più rilassati... Ride. Non sto scherzando, dico sul serio.
«Potrebbe essere una bella idea, grazie. Diciamo che sono partito un anno fa, però solo da sette mesi ho trovato un equilibrio. Ma non ho mai rinunciato alla mia filosofia».
Quale?
«Vivo alla giornata, ogni giorno è come se fosse il primo. Le faccio un esempio: quando ho lasciato il Majestic a Roma, un ristorante da 60mila coperti l’anno, molti mi hanno chiesto se ero diventato pazzo. A loro rispondo che si è trattato solo di coraggio. Sono uno che non si ferma mai e che ha bisogno sempre di nuovi stimoli».
È stata la sua filosofia a eliminare dalle sue ricette l’aglio e la cipolla o ha fatto tutto da solo?
«Ha tutta l’aria di essere una scelta ruffiana, dettata dalle esigenze dei vip. Ma non è così. È una decisione che parte da lontano, non amo cipolla e aglio e di conseguenza in cucina non uso il soffritto. Per questo ho inventato qualcosa che potesse sostituirlo. Ero in Sicilia, sul mare, avevo a disposizione del buon olio, arance, basilico, capperi, acciughe e mandorle. Ho messo tutto nel frullatore. Da questo esperimento è nata la mia prima vera ricetta, “il pesto di agrumi”, di cui sono molto orgoglioso».
Ecco l’origine dei suoi frullati. Scherzo, naturalmente, i suoi sughi frullati saranno buonissimi. Qual è il suo ingrediente magico?
«L’arancia, la congiunzione tra l’inverno e l’estate: la metto ovunque, è un frutto camaleontico, fresco, nutriente e dissetante».
Passiamo alla sua caponata, che è arrivata fino a New York.
«L’ho preparata per i 380 invitati dell’ambasciatore Sebastiano Cardi al Palazzo di Vetro delle Nazioni unite. Si festeggiavano i 60 anni dell’Italia all’interno dell’organizzazione internazionale».
Gli ingredienti?
«Melanzane, salsa di pomodoro, capperi, pinoli tostati, olive, basilico, aceto e zucchero. Tutto fatto arrivare dalla Sicilia».
Anche per il suo ristorante fa arrivare tutto dalla Sicilia?
«Certo, tranne la carne».
Che mi dice del suo cous cous che ha conquistato i milanesi?
«È il cibo universale che unisce le genti del Mediterraneo e del mondo intero. A San Vito Lo Capo, il Cous cous fest è un grande successo che riunisce 450 mila persone; e io lo sostengo da anni. È il piatto principe del mio ristorante».
Gli ingredienti?
«Riso integrale bio cous cous, finocchietto fresco, pistacchi sgusciati al naturale, olio extra vergine di oliva, acciughe sottolio, mandorle tostate, doppio concentrato di pomodoro. Recentemente ho festeggiato l’arrivo della prima pentola da cous cous, in argento, disegnata da me con il supporto degli artigiani dell’Argenteria Dabbene di Milano. Devo dire che la cottura nelle pentole d’argento è meno violenta e i sapori sono più delicati».
Lei cucina anche per i vegani?
«Se mi chiedono un piatto vegano lo preparo, ma temo sia solo una questione di moda».
Qual è la tendenza del momento?
«Le mezze porzioni. Io sono aperto tutto il giorno e capita spesso che mi chiedano alle quattro del pomeriggio mezza porzione di spaghetti. Ma è anche un modo per tenersi in forma. Quello che fa ingrassare non è tanto il cibo in sé, piuttosto la quantità. Lo sa bene chi è perennemente a dieta».
La vedremo ancora in televisione?
«Non lo so, se ci sarà una seconda edizione di The Chef. In realtà non mi interessa molto la tv, mi annoia. Odio le registrazioni e i tempi morti. Il mio palcoscenico è il mio ristorante».
Con i suoi colleghi? Non mi dica che siete tutti amici e che tra di voi non c’è un pizzico di gelosia...
«Difficile da credere, lo so, ma è cosi. Voi giornalisti la dovete smettere di insinuare gelosie inesistenti».
Lei è famoso anche per la sua passione per i motori. Ha anche posato per testate giornalistiche specializzate.
«Ho una Harley e una Jaguar, sono il mio rifugio dove nascondermi per stare in pace e rilassarmi. Ma vengono dopo mia figlia, Carolina, di 9 anni, che vive a Roma con la madre. Ma appena posso corro da lei».