Libero, 20 giugno 2016
Vegas, l’uomo che pagherà per tutti
Sessantacinque anni appena compiuti, stipendio attuale di 240mila euro lordi e ultimo reddito complessivo dichiarato pari a 567.798 euro, stile di vita riservato, dotato di umorismo sottile e figlio di ottime letture, il magistrato mancato Giuseppe Vegas ha un problema: è l’anello debole della catena di controllo che secondo il libro dei sogni avrebbe dovuto impedire alle banche di fregare i risparmiatori. C’erano Pier Luigi 12Boschi e i suoi colleghi banchieri degli istituti maramaldi: se la vedranno con i magistrati, ma si accettano scommesse che finirà tutto a cantuccini e Vin Santo. C’erano (e ci sono ancora) gli ispettori della Banca d’Italia e il governatore Ignazio Visco, responsabili di una vigilanza che non ha saputo vigilare: ma su loro si è aperto subito l’ombrello protettivo di Sergio Mattarella e dunque guai a chi li tocca. E poi, appunto, c’è Vegas, che di mestiere fa il presidente della Consob, cui spetta approvare i prospetti informativi dei prodotti finanziari. Quando dal governo hanno cominciato a sparargli addosso, Mattarella è tornato al silenzio che gli è congeniale. A difenderlo sono rimasti così Angelino Alfano, Renato Brunetta e Maurizio Gasparri: in tempo di renzismo imperante, non la più solida delle garanzie.
Per cercare colpe da imputare al capo della Consob occorre inoltrarsi nella giungla dalle leggi italiane ed europee sulle informazioni ai risparmiatori, norme scritte così male da rendere di fatto impossibile distinguere torti e ragioni. Ma la sua rimozione un senso l’avrebbe a prescindere: uno come Vegas alla guida di un’authority è un’anomalia. Miracolosamente sopravvissuto sin qui pur appartenendo alla specie dei liberisti, estinta come i dodo, il pasciuto presidente della commissione è infatti osservato con crescente appetito dai nuovi predatori.
Non lo aiuta la tendenza all’individualismo, malattia genetica di tutti i liberali: è esaltante quando cavalchi l’onda, ma letale appena arriva il gelo e non hai un rifugio dove ripararti. «Amo essere minoranza», disse a Giancarlo Perna quando era ancora un umile sottosegretario del governicchio Dini. Infatti nel 1968, mentre tutti correvano a fare casino nelle scuole e nelle piazze, il sedicenne Giuseppe, figlio di siciliani trasferitisi nel dopoguerra, bussò alla sede milanese del Pli per prendere la tessera del partito di Giovanni Malagodi. Si laurea alla Statale di Milano a 22 anni, tesi in diritto ecclesiastico. Vince il concorso in magistratura, ma sceglie di non indossare la toga: i suoi interessi sono altri. È col più laico dei parlamentari liberali, l’imprenditore lombardo Antonio Baslini, che Vegas costruisce un rapporto forte. Baslini è quello che, insieme al socialista Loris Fortuna, scrive la legge sul divorzio approvata nel 1970, in opposizione allo stesso Malagodi, che frenava per il timore di perdere il rapporto con la Dc e di favorire i comunisti.
GLI INIZI NEL PLI
Attratto dalla politica si trasferisce a Roma, dove diventa direttore scientifico della Fondazione Einaudi, il centro culturale di riferimento del Pli, e nel 1978 entra in Senato vincendo il concorso a funzionario parlamentare. Lavora subito come consigliere della Commissione Bilancio, presieduta in quegli anni da Beniamino Andreatta, ed è qui che impara a conoscere numeri e trucchi della contabilità pubblica. Lascia la fondazione nel 1992, quando ne diventa presidente Valerio Zanone, a sua volta in fuga dalla politica terremotata dalle inchieste dei magistrati ed esponente di un liberalismo schierato a sinistra (finirà infatti nella Margherita), che Vegas, ligio ai precetti di Luigi Einaudi e Friedrich von Hayek, mal digeriva. Defunto il Pli, l’ormai quarantunenne Vegas aveva davanti una lunga e ben retribuita carriera nello staff del Senato. L’imprevisto che gli cambia la vita si presenta nel 1995, sotto le spoglie spettrali di Lamberto Dini, voluto premier da Oscar Luigi Scalfaro e alla disperata ricerca di sottosegretari estranei ai partiti, magari persino competenti, da piazzare nel suo improvvisato esecutivo. Augusto Fantozzi, ministro delle Finanze, per non fare torto a nessuno ne vuole uno pencolante a sinistra e un altro tendente a destra: il secondo è Vegas. Il quale, dopo nemmeno due mesi, passa al Tesoro, nel dicastero retto da Dini: il ruolo è lo stesso, ma di fatto è una promozione.
Nel 1996, finalmente, si vota. E il governo Dini diventa territorio di caccia per i partiti. Il premier, Fantozzi e Tiziano Treu finiscono in Parlamento grazie all’Ulivo di Romano Prodi; Vegas, Franco Frattini e Filippo Mancuso scelgono di candidarsi in Forza Italia. Per Vegas è un’entrata dalla porta principale: a presentarlo al Cavaliere è l’imprenditore piemontese Silvano Boroli, amico di Silvio Berlusconi e azzurro della primissima ora. Dopo una legislatura Boroli ne ha abbastanza della politica, ma lascia il suo collegio senatoriale di Novara a Vegas, che aveva apprezzato come secchione di talento quando era ancora funzionario della commissione Bilancio. Così, appena nel 2001 la Casa delle Libertà vince le elezioni e torna al governo, Vegas è viceministro con Giulio Tremonti e Domenico Siniscalco. Il tandem con Tremonti si ricompone dopo le elezioni del 2008 e insieme, l’anno successivo, i due firmano la riforma della contabilità di Stato. Scrive libri, soprattutto quando il centrodestra è all’opposizione. Tra il 2000 e il 2014 ne sforna cinque: uno sul sistema elettorale, quattro sul bilancio pubblico. Non proprio dei best seller, ma nel piccolo mondo antico degli addetti ai lavori la firma di Vegas su certi argomenti è garanzia di serietà.
Il passaggio da secchione di talento a secchione di successo avviene nel 2010. Per una volta Forza Italia si trova al governo nel momento in cui c’è da fare una nomina importante: è libera la poltrona di presidente della Consob, l’autorità che vigila sulla Borsa. Berlusconi e Tremonti, vista anche la penuria di cervelli nell’ambiente che li circonda, puntano su Vegas, preferendolo ad Antonio Catricalà, sponsorizzato da Gianni Letta. Ci mettono qualche mese, ma alla fine ci riescono. A sinistra qualcuno grida allo scandalo, sostenendo che Vegas non dia le necessarie garanzie di indipendenza, essendo stato sino a quel momento viceministro dell’Economia. Il problema vero semmai è un altro: il prescelto conosce a menadito la contabilità pubblica, ma le società per azioni e la Borsa sono cosa assai diversa. Lui stesso, appena la nomina diviene ufficiale, ci scherza sopra: «Mi toccherà studiare». Nelle occasioni ufficiali se la cava citando il solito Einaudi, le cui prediche inutili, come la grisaglia grigia, sono buone per tutte le occasioni: «Gran fracasso di rovine attorno a chi, per sostenere l’edificio di carta, fabbricò altra carta e vendette carta a mezzo mondo». La teoria non fa una piega, il difficile è metterla in pratica.
LE ACCUSE
Morbido nei tratti e nei modi, nei fatti Vegas sa anche essere ruvido. Nel 2012, ritenendo la fusione tra Unipol e Fonsai cosa buona, decide di intervenire in prima persona e convocare in Consob le parti interessate, inclusi i vertici di Mediobanca, per spiegare il modo in cui, a suo giudizio, avrebbe dovuto essere fatta l’operazione: nel linguaggio degli iniziati si chiama «moral suasion», di fatto è un opinabile intervento discrezionale che gli procura le prime richieste di dimissioni. A complicare le cose ci si mette Marcello Minenna, responsabile dell’ufficio analisi quantitative della stessa autorità: sostiene di avere individuato un buco di 600 milioni nei conti di Unipol, che Vegas avrebbe ignorato per non compromettere la fusione. «L’ufficio di Minenna ci mise un anno a verificare tutti i titoli», risponderà il presidente della Consob.
Il duetto tra Vegas e il suo accusatore si trascina sino a oggi. Stavolta lo scontro riguarda gli «scenari probabilistici» che, secondo Minenna, nel 2011 Vegas avrebbe fatto rimuovere dai prospetti informativi delle emissioni obbligazionarie emesse da Banca Etruria e dagli altri istituti: il presidente della Consob, in altre parole, avrebbe brigato per tenere i futuri sbancati all’oscuro dei rischi che correvano. L’authority replica di non avere «mai abrogato l’obbligo di inserire gli scenari probabilistici di rendimento nei prospetti informativi delle obbligazioni bancarie, per il semplice fatto che non è mai stato introdotto, né a livello nazionale né a livello europeo, alcun obbligo di includere nei prospetti questa informativa».
Costretto a giocare in difesa, Vegas scava una trincea che non si sa quanto potrà reggere. Lui stesso, nella relazione tenuta a maggio davanti al mercato finanziario, riconosce che il prospetto finanziario «rimane un documento troppo lungo e complesso per potere essere letto e pienamente compreso dal risparmiatore». In parole povere non ci si capisce nulla. E siccome un ruolo decisivo nella regolamentazione di quei prospetti lo ha proprio lui, queste parole hanno il sapore di un’ammissione di fallimento dal sen fuggita.
Fiutato l’odore del sangue, ministri e sottosegretari si dividono così tra chi chiede le dimissioni di Vegas e chi non spende una parola per difenderlo. Lo stesso Pier Carlo Padoan si limita a dire che «la Consob è un’autorità indipendente per legge»: una ovvietà solo in apparenza, perché assomiglia molto a un «vorrei tanto levarmi Vegas dalle scatole, ma non posso». Di sicuro i problemi di Renzi e Padoan adesso sono altri. Ma la resa dei conti è solo rimandata alla prossima truffa finanziaria, e siccome siamo in Italia non dovremo attendere molto. Difficile, insomma, che il mandato di Vegas arrivi alla scadenza naturale, prevista per la fine del 2017. A meno che, nel frattempo, al governo non succeda qualcosa di brutto (e a guardarlo bene il taciturno Vegas, dalle guance irsute e paffute, qualcosa del gufo che l’ha).