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 2016  giugno 20 Lunedì calendario

Intervista a un trafficante di uomini che dal Cairo organizzava viaggi per 5mila dollari a persona

Vogliono solo attraversare il mare e vivere. Sopravvivere, studiare, lavorare: i migranti vogliono solo una vita normale. Quando scelgono un trafficante, non lo valutano per nome e cognome, probabilmente falsi, ma dalla fama, dalle storie che ascoltano dagli altri profughi. Con me nessuno è mai morto. Adesso le barche partono da Rasheed, costa d’Alexandria, ma non voglio saperne più niente. La polizia lo sa, certo”: l’ex trafficante egiziano sta parlando dell’Odissea di profughi di questa nuova estate.
È già una nuova epoca criminale sull’altra sponda. Ma lo smuggler C. ha smesso. Non ripete più il suo funesto “help, help, I help people, sono loro a cercare me, non io loro. Sempre prima donne e bambini, I help. We help, we don’t kill”.
Insiste: chi fugge, per i nuovi trafficanti, è merce. Per lui erano uomini. “Non esiste anima buona in Libia” scrive su Whatsapp. Cirenaica e Tripolitania le chiama hell, inferno, proprio come i rifugiati. Questo ex contrabbandiere non vuole metterci piede. “Sarei pazzo, sarei solo un altro cristiano ammazzato lì”.
“Pago la polizia e fila tutto liscio”
Se l’anno scorso è stato l’anno della migrazione mediorientale – Siria, Iraq, Afghanistan – questo sarà l’anno africano di Gambia, Somalia, Eritrea che partono da una Tripoli feroce, da Zawara e Sabrata, soglie marine dell’Is. Se lo scorso era l’anno delle rail people, lungo i binari balcanici verso Nord, questo sarà di nuovo quello delle boat people, sfruttate dalla congrega criminale delle tribù libiche, padroni dei porti al servizio diretto o indiretto del Califfato. Nel sistema che gestisce la Libia la competizione tra contrabbandieri si è fatta sempre meno criminale e sempre più religiosa, mafiosa, terroristica.
C. continua a raccontare. “All trips are clean and safe – tutti i miei viaggi sono puliti e sicuri – per questo la mia reputazione è clean. Tante persone lavorano per me. Me famous in Iraq, Syria, Eritrea, Sudan, Armenia, Marocco, Algeria. Ci vogliono dai 40 minuti a un’ora fino a Mitilene, viaggiano 100-120 persone in 3 barche”, ha risposto sulla chat dove propagandava la sua rotta dalla Turchia a una collega spagnola. Letizia Alvarez voleva documentare la traversata e dice che le sembrava di parlare con uno che si credeva Gesù. Un uomo che soffriva della sindrome di Mosè, uno che ha organizzato in remoto o sul campo esodi in miniatura sulla rotta turco balcanica ormai chiusa. Che si vantava del suo zero killed – zero morti – in acqua, dei suoi veri salvagenti sul menù della fuga in pixel, dove su ogni barca aveva scritto un prezzo da pagare se volevi arrivare in Europa.
Per i siriani scappare in yacht costava 2600 dollari, sulla barca veloce 1200. Il viaggio di ogni natante costava dai 100 ai 150 mila euro e il prezzo arrivava anche ai 5mila a persona. “Do i soldi alla polizia per lasciarmi lavorare. All need money”.
Le coperte argentate luccicavano sugli uomini dei gommoni arrivati sulle coste di Lesbos, tutto navigava a vista, migliaia in fila. “Le mie barche arrivano direttamente a Mitilene”, in Grecia dove “police for money, do anything”. Nel Paese più povero dell’Unione procedeva la sua flotta silenziosa, un mondo che girava in arabenglish e dollari.
Prima il dio dei trafficanti era quasi sempre il dio dei naufraghi. Poi il mercato della fuga dei migranti è diventato senza frontiere, interconfessionale, interetnico più che internazionale, e il broker di anime egiziane aveva aperto uno degli snodi mediorientali verso la Turchia. Chi pagava di più, procedeva via aerea con i passaporti, chi di meno via mare verso Grecia e Balcani, a tappe fino a Eutopia.
Il suo regno liquido è durato relativamente poco ed è finito. Il network pare si sia spezzato come una ragnatela fragile, perché “ora solo le bad people hanno le barche”. Ma quando questo egiziano ha cominciato, l’acqua non bruciava ancora di sangue e morte, non c’era né Mediterraneo né Egeo ingrossato di profughi, l’Is non esisteva, non proprio e comunque non fino a quel Cairo dove lui ha cominciato. In quell’Egitto moribondo di tre anni fa, dove tutto andava male, non si riusciva ad immaginare un peggio.
“Facevo la guida turistica poi è arrivato Al Sisi”
All’epoca Adly Mansour era il presidente ad interim che stava per spianare la strada a quel generale che aveva ripulito il Cairo dagli Ihwan, i Fratelli Musulmani. Sulla faccia di Al Sisi sui giornali si sputava con foia e rancore riservati all’ex presidente diventato nemico pubblico. La polizia pattugliava le strade, i carri armati impedivano l’accesso a Tahrir, i figli di Allah si nascondevano, i giovani spiriti rivoluzionari della Capitale erano confusi ma coscienti che solo un tiranno peggiore poteva averli liberati da quello precedente.
Gli agua del Cairo, i bar pieni di fumo di shisha e di birra Nilo, invece che all’alba, si svuotavano presto al coprifuoco. Le strade tornavano silenziose, deserte, irriconoscibili. La comunità di cristiani copti, la più grande del Medio Oriente, dieci milioni di anime, rimaneva tra le macerie degli altari a Delga, al Menja, Assiut e dintorni dove 70 chiese erano bruciate. Le tv trasmettevano gli speciali sugli attentati in Sinai, delle stragi del deserto veniva accusata Hamas. La cellula Ansar Beit Al-Maqbis aveva appena attentato alla vita del ministro dell’Interno Mohyammed Ibrahim. “Ora dirà che tutti sono terroristi per prendere il potere”. Era il 2013 e il signor C. parlava di Al Sisi. Sedeva sorridente in un bar e nemmeno lui sapeva che stava per prosperare. Lui, ex guida turistica rimasta senza lavoro con gli ingressi vacanza sotto zero, stava diventando imprenditore in un settore in crescita costante: la partenza.La guerra in Siria era molta morte e poca fuga: a scappare riuscivano in pochi e uno che ce l’aveva fatta era l’apostata siriano ribattezzato Fraklin, il cui nome da musulmano era Mohamed e che aveva cercato rifugio tra le croci copte dopo la ridda, l’abbandono dell’Islam. La famiglia lo considerava un kefir, un infedele. Aveva raggiunto il Cairo e al Cairo aveva trovato C. I giorni memorabili della primavera e della rivoluzione erano passati per sempre. C. stava adattando repentinamente i suoi guadagni agli eventi, a una Geografia che assediava la Storia. Le ha sfruttate entrambe, quando le guerre hanno bruciato completamente il Levante. Aveva 29 anni allora, 32 oggi. Ciglia sottili, un sorriso perenne, denti bianchi nonostante il fumo, la pelle color hashish, pupille nere. Se non ti fissavano i suoi occhi, lo facevano quelli delle sue Madonne tatuate sulla pelle, con le croci sulle braccia, identiche a quelle che si disegnano ai bambini appena nati alla cattedrale della Città dei Rifiuti, dove la comunità copta vive. Non era ancora un Creonte delle piramidi. Era un piccolo pesce in un piccolo acquario, l’enclave cristiana. Help è la parola che forse ha pronunciato di più da allora, ma già metteva in chiaro che “business come first”. La riservatezza era il suo scheletro. “Neppure i miei amici sanno dove abito, se li torturano non sapranno cosa dire”. Si presentò come un asceta che forniva servizio alla comunità perseguitata, evitando la burocrazia tra il Mar Rosso e il Purgatorio. Fedele a un solo dio, ma pieno di contraddizioni, perché già allora, con liquidità giusta e prezzo rialzato, anche i musulmani potevano scappare con lui.
Nel distretto 6 ottobre, dove finisce il Cairo e comincia il deserto, sul tavolo svuotò una busta di plastica nera. C’erano passaporti e fotografie. Erano destini in attesa di uomini, donne e bambini che sarebbero scappati in aereo con un visto Shengen per 5mila o verso gli Usa per 15mila pound egiziani d’allora, con timbri falsi su documenti veri o viceversa. Non faceva altro, diceva, che passare carte e soldi da una mano all’altra. Era un tramite, un impiegato speciale. Faceva chiudere un occhio a un addetto ai controlli per esaudire i desideri del suo popolo in cerca di futuro altrove. “In 3 giorni ottieni quello che per vie legali otterrai forse mai. A volte guadagno mille euro al giorno”.
Se gli chiedi quanta gente è scappata da quel tavolo del 2013, dice “many” e non lo sa. L’unica cosa che evidentemente gli piace contare sono i soldi. E se gli chiedi quanti ne ha fatti, fa foto con lo smartphone a tappeti di contante, mazzette che sembrano appoggiate in bella vista sul sedile di un’auto.
Il ritorno alla legalità
Il signore del mare e delle frontiere adesso vuole una vita tranquilla. Proprio lui non è riuscito a scappare. Come i migranti, “love Sweden”, sognava l’Europa, ma ora dice di non farlo più. “Europe is dinger, l’Europa è in pericolo, ora è piena di musulmani. Nelle barche è salito chiunque. Faranno quello che vogliono. Dalla Libia da ogni porto fanno partire oltre dieci barche al giorno, dall’alba al tramonto l’Is fa milioni di dollari, ogni profugo paga mille euro. L’Europa si riempirà di musulmani che porteranno la guerra”. Dopo essere stato minacciato da competitori jihadisti che lo hanno raggiunto a casa, si è nascosto ad Horgada, ha provato a lavorare per i buoni, ma non l’hanno ascoltato. “Devo proteggermi, ottenere qualcosa in cambio delle mie informazioni”. Dai migranti e da chi ha provato a imbarcarsi dice di aver avuto in cambio segreti e fotografie che ha tentato di scambiare: quello che cercava era un passaporto europeo (e per sé lo voleva vero). Dice di aver contattato chi doveva tra le ambasciate straniere: “Non ho ottenuto protezione, né altro”. È tornato quello che era. Uscito dagli affari sporchi, ha usato i soldi per fare altri soldi nei business legali, come fanno quasi tutti.
In qualche modo è tornato al punto di partenza, ma ora con tanti negozi e case lungo il Nilo. Circondato da quello che ha sempre voluto: fratelli, fidanzate, soldi, “la fede che mi protegge, il mio Dio”, quel dio per cui si scappava all’inizio della storia, quando tutto è cominciato.