20 giugno 2016
Cosa dice Renzi
Goffredo De Marchis per la Repubblica
«La sconfitta a Torino e Roma è senza attenuanti. Ma lo ripeto anche a urne chiuse: non è un voto nazionale, bensì locale. Non cambio certo idea perché abbiamo perso». Matteo Renzi, seduto nell’ufficio di Largo del Nazareno, cerca di non smarrire il controllo davanti ai dati dei ballottaggi. Numeri brutti, in alcuni casi pessimi. Destinati ad aprire una nuova stagione del renzismo, inevitabilmente. Eppure il premier prova a tenere la barra dritta. «Non mi dimetto, sia chiaro. Nè da Palazzo Chigi nè da segretario del Pd. La minoranza chiede il congresso? Si accomodino. Tanto ci vuole un po’ di tempo e non si può fare prima del 2 ottobre». Che succede il 2 ottobre? Per Renzi è come se fosse la data già fissata del referendum costituzionale. E nella sera più buia della sua ascesa politica, l’ex sindaco di Firenze conferma: «Il referendum è la partita con la P maiuscola. Se perdo, il congresso non mi tocca. Se vinco...».
Renzi alla resa dei conti. Nel suo studio alla sede del Pd, sono presenti Matteo Orfini, presidente del partito e commissario di Roma, con un viso lungo così, il vicesegretario Debora Serracchiani, il tesoriere Francesco Bonifazi, i membri della segreteria Lele Fiano e Ernesto Carbone. Stavolta non si affacciano dirigenti della sinistra. Affilano le armi altrove, studiano le mosse di un’offensiva che si manifesterà nelle prossime ore. «Tocca al segretario la prima parola», dice maliziosamente Nico Stumpo. Con il passare delle ore, Renzi azzarda un’analisi più approfondita del voto. «Lo so che non bilanciano la sconfitta di Milano e Torino, ma io vedo anche altre cose. Oltre a Milano prendiamo tutti i capoluoghi lombardi. E a Varese strappiamo la città alla Lega dopo 23 anni. Con Galimberti, un ragazzo di 39». Allora, si chiede il premier, «cosa dovrei fare io? Essere più o meno rottamatore?». Domanda retorica, infatti Renzi fa un altro esempio. «Assisi è un piccolo comune, ma abbiamo candidato una donna di 40 anni e abbiamo vinto dopo un quarto di secolo».
Su questo Renzi vuole ragionare nella direzione di venerdì anche «sul piano nazionale». Ovvero: «Non è mancata la sinistra, perchè la sinistra non c’è. Non c’è stato lo sfondamento al centro». Eppoi: «Se l’elettore deve scegliere tra Pd e 5 Stelle va tutto sui grillini, se invece siamo contro il centrodestra, si divide». Il ricambio generazionale è un mantra che non Renzi non abbandona. Gli esempi di Varese e Assisi richiamano immediatamente la sfida di Torino e dello sconfitto Fassino. «Potevamo non candidarlo», si domanda il segretario. Non affonda, ma dice che «la verità è che i giovani hanno risultati migliori».
Il premier ragiona anche sul futuro braccio di ferro con gli avversari interni. «Loro cosa possono inventarsi? Hanno soltanto due strade: la richiesta di un congresso immediato e la modifica dello Statuto sulla coincidenza tra premier e segretario per rompere questa sovrapposizione – argomenta con i collaboratori —. Il congresso ha i suoi tempi. C’è il tesseramento, ci sono le votazioni degl iscritti e poi le primarie. Viene comunque prima il 2 ottobre. Altrimenti hanno la strada di un’assemblea nazionale in cui si mette ai voti la proposta sullo Statuto. Vedremo...».
Ma la minoranza non rappresenta oggi un problema minore? Non va invece messo a fuoco il problema di un Pd che perde con i 5 Stelle e vince, al contrario, nel classico bipolarismo contro il centrodestra? Il premier guarda subito avanti. Insomma, questa, per la notte, è la linea del segretario. Puntare tutto sul referendum, respingere gli attacchi dei dissidenti. «A Roma la sconfitta era prevista anche se è larghissima – ragiona Renzi —. A Torino è inattesa. Ma cosa dovevo fare, non far correre Piero?». Sembra quasi dire che il candidato poteva essere diverso, però non si spinge più in là. Certo, Fassino paga il naturale desiderio di ricambio dopo 20 anni di amministrazione di sinistra. Ma bisognerà rispondere al quesito sulla mancata conferma.
Le domande si ripetono nei corridoi del Nazareno. Visti i numeri impietosi delle amministrative, il viatico per il referendum è negativo. Come dire: il premier rischia di perdere anche la “Partita”. «A dispetto di quello che dicono alcuni commentatori, io ho sempre saputo che il voto di ottobre è lì, troppo vicino tra i Sì e i No per dire che uno uscirà sicuramente vincitore. C’è da combattere, non ho mai pensato che sarebbe stato diverso». Ora però bisognerà valutare i punti deboli del Pd, di Renzi, della riforma, della legge elettorale e del governo.
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Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera
«Abbiamo perso, c’è poco da dire. E vi dirò di più, quando ci battiamo con i grillini prendiamo la batosta». E poi: «Renzi ha perso perché non ha fatto abbastanza Renzi». Il presidente del Consiglio a tarda notte trae le somme delle elezioni amministrative. E insiste: «Ho rottamato troppo poco». Ancora: «Devo mettere da parte la vecchia guardia». Ragionamenti che nascono da una constatazione: «Dovunque ci siamo battuti con i 5 stelle questi ultimi hanno vinto». E, quindi, «non siamo sconfitti», perché «abbiamo ancora spazi». Ma «siamo anche pronti a farci male», come si «è visto in alcune situazioni».
Dunque, Renzi plaude a Sala, l’unico candidato che ha scelto direttamente e pubblicamente. Ma non nega le «sconfitte». Sono giorni, per esempio, che va ripetendo sempre la stessa frase: «Su Roma non recuperiamo più». E quando arrivano gli exit poll, a confermare le sue parole, il premier scuote il capo e dice: «Ora vedremo che cosa sanno fare i grillini».
Già, perché secondo Renzi gestire la Capitale, ridotta così com’è, non sarà facile e sarà quello il vero banco di prova dei 5 Stelle. Su quella ribalta Virginia Raggi e il direttorio che la segue passo passo avranno tutti i riflettori accesi, e, chissà, «quella vittoria potrebbe rivelarsi anche un boomerang».
Ma Renzi non crede che quello di Roma sia stato un voto contro di lui. O contro la riforma: «Abbiamo perso le elezioni nelle periferie non perché si sono espressi sul bicameralismo o sul sistema elettorale. Abbiamo perso perché quelle periferie erano piene di immondizia e problemi e perché la Capitale è stata governata male. Ho visto le immagini dei telegiornali sul voto a Roma. Si vedevano cassonetti che straripavano di rifiuti davanti ai seggi...».
II Nord, invece, tiene sospeso sino all’ultimo il premier. A sera tardi, il premier legge, con una certa apprensione, i voti di Appendino a Torino. Ciò a cui però Renzi non crede è che quel voto rappresenti la prova generale della Santa Alleanza contro di lui, quella che tenterà l’assalto al palazzo coagulandosi attorno al «No».
«Ragazzi quella è tutta un’altra storia», dice il premier. «A Milano come a Torino – è il ragionamento di Renzi – non c’è nessuna Santa Alleanza contro di me. Basti pensare che tra chi vota Appendino a Torino c’è, ahimè, anche gente che poi dirà “Sì” alla riforma e che addirittura vota e ha votato per me. Si tratta di gente (molti giovani) che si esprime contro quella che considera la vecchia politica».
Per questa ragione, il premier dice di non temere per le conseguenze che le amministrative potranno avere sul voto di ottobre: «Io aspetto tutti al varco del referendum e lì ci divertiremo». Il premier ragiona anche sull’offensiva che la minoranza interna potrebbe mettere in atto all’indomani del voto. È convinto che diranno che «ci vuole un segretario che lavori a tempo pieno» e che, quindi, chiederanno la modifica di quell’articolo dello Statuto del Pd secondo il quale il leader del partito è automaticamente il candidato premier.
Ma per raggiungere questo obiettivo «ci vuole un congresso», spiega il premier. E aggiunge: «E comunque bisogna passare prima per il referendum e io quello sono sicuro di vincerlo. Stavolta ci sarò io in campo e quella sarà una sfida fantastica». E ancora: «Io comunque non mi dimetto da niente».
Ma una registrata al partito, Renzi la vuole dare sul serio e «la si darà – annuncia – a prescindere dai risultati elettorali». Come intende procedere il premier? «Partendo dall’organizzazione del referendum», precisano i renziani.
Sarà quello, infatti, lo strumento che il premier utilizzerà «per capire chi lavora nei territori, chi sono gli alleati interni di cui ci si può fidare» e per comprendere «come funziona effettivamente la rete renziana». Insomma, il referendum sarà lo strumento attraverso cui il premier preparerà il «suo» partito.
Perciò la «macchina elettorale» che verrà creata per far vincere i «Sì» al referendum sarà la stessa «macchina» che, per dirla con le parole di un renziano molto influente, «terrà il motore acceso per il dopo». Morale della favola: è un esperimento.
Insomma, il premier di una cosa è assolutamente certo: «Che fine farò io dipenderà dal referendum, non dalle Amministrative».