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 2016  giugno 20 Lunedì calendario

Ecco cosa dicono gli sconfitti

Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera
Roma Dategli un bicchiere d’acqua. «Ecco qui, Bobo… bevi piano».
«Bobo, sei un grande».
«Bobo ti voglio bene».
Volontarie con gli occhi lucidi. Un corridoio illuminato male. Le finestre del comitato elettorale spalancate sullo scalo di San Lorenzo. Mezzanotte.
Roberto Giachetti – occhi cerchiati, viso scavato, cinque chili in meno – viene avanti calmo, svagato, come liberato. La sconfitta è dura, durissima. Ma anche annunciata. Da giorni, da settimane. Forse, a ripensarci adesso, proprio dall’inizio.
Ricorda, Giachetti?
Sì, certo che ricorda (un racconto, tra brutti presagi e deboli speranze, ripetuto come un tragico mantra sul trenino che lo portava ad Ostia per un’iniziativa, in piazza Navona al funerale di Marco Pannella, al telefono).
«Da subito, ho capito che c’era una montagna da scalare. E dovevo riuscirci da solo. Il partito, purtroppo, più che un risorsa, s’è rivelato una tragica zavorra».
Mafia Capitale.
«L’ho incontrata ovunque sono andato. L’ho respirata. Una cappa. E, sotto la cappa, sempre gli stessi discorsi della gente: pure voi, Giaché, ce stavate in mezzo pure voi del Pd. E io a dire, a spiegare che abbiamo fatto pulizia, che siamo stati gli unici a farla e, soprattutto, che la mia storia sarebbe stata una garanzia. Anni e anni di lavoro in Campidoglio e mai, dico mai mezzo sospetto, un refolo perfido, niente, mai niente. Mi ascoltavano. Poi mi dicevano: senti, nun è na’ cosa personale. È che tu rappresenti il Pd. Ce dispiace, ma nun te votamo».
La rabbia dei romani.
«Dopo i cinque tremendi anni di Gianni Alemanno, quando hanno dato fiducia a noi, li abbiamo ripagati con Ignazio Marino. I romani erano e sono furibondi. La Raggi ha rappresentato la vendetta perfetta. E dirgli che sono romano e amo Roma, dirgli che come loro avrei voluto far rinascere questa città, non è bastato. No, non c’è stato il tempo necessario per riuscire a convincere tutti. Mi sarebbero serviti altri due mesi per finire di scalare la montagna e arrivare in vetta. Essere arrivato al ballottaggio, francamente, mi pare già un mezzo successo».
Con pezzi di partito, in qualche caso, addirittura ostili.
«Alcuni sono stati leali, ho visto grande impegno. Massimo D’Alema ha invece espresso, fin dall’inizio della mia campagna elettorale, un giudizio negativo nei miei confronti: fu chiarissimo dalla Gruber, a Otto e mezzo, su La7».
Poi, c’è il resto.
Quello che Giachetti, ovviamente, non può dire (ma che riferiscono i suoi, con un filo di voce e scuotendo la testa).
«Vada su YouTube e senta cos’hanno urlato a Matteo Orfini, l’altro giorno, nel mercato di Giardinetti, periferia Sud-Est…». Cosa? «Uno ha detto che se avesse incontrato Renzi, lo avrebbe preso a pizze in faccia. Ha detto proprio così». Un problema. «Un problema enorme. Bobo, poveraccio, l’ha detto e ridetto ovunque: Renzi non c’entra niente, dovete votare me, non lui. Lasciate stare Renzi».
Giachetti va a tenere l’ultima conferenza stampa. Luciano Nobili, il coordinatore della campagna, legge proiezioni che lasciano senza fiato: «Uno tsunami. Occorre avere il coraggio di usare le parole giuste in politica». Raggi irraggiungibile. Aspettare oltre non ha senso.
Ma mentre Giachetti va, certi ti prendono sotto braccio. No, aspetti, diciamole tutte. E allora iniziano a raccontare che il comizio di chiusura con Renzi sono stati costretti a organizzarlo al chiuso, dentro l’Auditorium. E che il giochino con il ministro Maria Elena Boschi – al telefono, insieme a Giachetti, per convincere i militanti – è stato «accettato da Bobo solo perché tanto sapeva già di aver perso».
L’ultima settimana hanno mollato tutti.
Come ha raccontato il sito Dagospia, Giachetti aveva concordato da tempo un brunch elettorale in casa della principessa Ascania Spadafora: mozzarella di bufala e nobili, olive ascolane bollenti e notabili vari. Ma l’hanno aspettato invano.
Il confronto di Sky sulla piazza del Campidoglio è invece andato benissimo perché Giachetti, ormai scarico, è stato se stesso: empatico, preciso, mai nervoso (cioè, no: forse un filino nervoso solo quando gli hanno chiesto della casa in campagna a Subiaco).
I militanti adesso hanno tolto l’audio al megaschermo. Si vede solo la Raggi che parla e ride. E come ride.

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Maurizio Giannattasio per il Corriere della Sera
Milano È più forte di lui. Piuttosto che rinunciare a una battuta si taglierebbe la lingua. Stefano Parisi, lo sconfitto di queste elezioni milanesi, si palesa nel suo quartiere generale all’hotel Marriott pochi minuti prima dell’una. L’applauso che lo accoglie è dirompente, lungo, sentito. Lui cerca di interrompere l’ovazione. Non ci riesce. Una, due, tre volte. Alla fine prende il microfono e taglia corto: «Capisco l’entusiasmo però vi voglio dire una cosa: abbiamo perso». Aggiunge: «Lo hanno segnato loro il rigore». Diciassettemila voti di differenza contro i cinquemila del primo turno. L’apporto grillino non è arrivato. Ma Mr Chili non molla il colpo. «Abbiamo fatto un grande lavoro, per una manciata di voti potevamo vincere». Ha subito telefonato a Beppe Sala per congratularsi. Senza mancare di dargli un consiglio: «Gli ho detto di fare bene il sindaco».
Ma il progetto politico, quello che fino a quattro mesi fa non esisteva, un centrodestra allargato, unito, a trazione moderata, continua la sua corsa e si allarga su scala nazionale: «Da qui è partito un progetto nuovo che non si ferma con il risultato di oggi. A Milano è nata una piattaforma nuova che va oltre la città. Io ci sarò sempre. Cambieremo profondamente la politica in Italia». Da nuovo leader del centrodestra? «Non lo so. Non è oggi il momento per parlarne. Prima bisogna studiare il voto».
Domani sarà il giorno dei chiarimenti, capire cosa non ha funzionato, perché negli ultimi giorni di ballottaggio la presenza dei partiti del centrodestra, in particolare la Lega, si è quasi liquefatta. I distinguo sono cominciati; e volano già i primi stracci tra alleati con accuse incrociate tra Gabriele Albertini, Matteo Salvini e Ignazio La Russa.
Per tanti però la notte è ancora il momento dell’orgoglio, del risultato che in quattro mesi ha portato un centrodestra spappolato a ritrovare entusiasmo e coesione. Parisi ne è consapevole e batte su questo tasto: «A Milano è nata una cosa e deve continuare. Dobbiamo lavorare su due fronti: sui nostri contenuti e sul rinnovamento della politica perché se 500 mila persone non sono andate a votare non è solo colpa della data delle elezioni ma anche della scarsa fiducia nella politica».
Chiede al Governo e al neosindaco Sala di tener conto delle istanze portate avanti dalle 247.052 preferenze (circa 28 mila in più rispetto al primo turno) ottenute nel ballottaggio: «Ora avremo altri 5 anni di governo del centrosinistra. Speriamo che il governo si accorga delle nostre istanze. Metà della città non ha votato e metà ha detto che le cose devono cambiare».
Parisi ci sarà e promette che la sua battaglia in Consiglio comunale non sarà all’insegna dell’ostruzionismo: «Faremo un’opposizione che costruisce il futuro di Milano». Parole ricorrenti: futuro, cambiamento, rigenerazione. Il lessico indica che l’avventura di Stefano Parisi non finisce qui. Nessun rimpianto e nessun rimprovero ai partiti che lo sostengono. E neanche all’elettorato Cinque Stelle che non ha ricambiato il favore di Torino e Roma. Piuttosto su chi ha scelto l’ignavia: «Preferisco uno che esce a votare Cinque Stelle piuttosto che uno che resta a casa». Lui la partita l’ha giocata fino in fondo. E da quanto si è capito siamo solo al primo tempo. Il secondo, lo giocherà su un campo più grande di quello di San Siro.

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Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera
Torino È caduto il muro di Torino: la città più strutturata d’Italia ha votato per gli antagonisti; ha scelto Grillo l’unica metropoli, insieme con Genova, sempre amministrata dal centrosinistra da quando esiste l’elezione diretta dei sindaci. È caduto Piero Fassino: due volte ministro dell’Ulivo, segretario dei Ds, cofondatore del Pd, presidente dei sindaci italiani.
È la rivoluzione della Crocetta: non solo i leghisti, anche i moderati hanno appoggiato i 5 Stelle; che con il loro volto borghese espugnano la città un tempo simbolo della classe operaia, da oltre un ventennio governata da un’alleanza tra quel che resta delle due grandi forze che si sono combattute per tutto il 900: la Fiat e il partito comunista. Torino era davvero un campo di battaglia: qui si affrontavano il capitale e il lavoro, il padrone e gli operai, per stabilire chi avrebbe condotto l’Italia nella modernità. Non a caso quasi tutti i leader comunisti erano torinesi di nascita o di formazione: Gramsci, Togliatti, Secchia, Terracini, Pajetta, Pecchioli, Occhetto, sino appunto a Fassino. C’era lui accanto a Berlinguer ai cancelli di Mirafiori nel 1980. Ma nell’Italia di oggi avere un curriculum e una storia è diventato un problema. Così il sindaco uscente ha perso contro una giovane che ha meno della metà dei suoi anni e nessuna esperienza amministrativa, ma ha saputo intercettare un inevitabile desiderio di cambiamento. La Torino dei militari, degli operai, dei preti sociali, è ormai nel bene e nel male una città italiana come le altre; e il voto di ieri lo dimostra. Anche lo spirito delle Olimpiadi si è un po’ perso. La città si è fermata. La crisi sociale morde, come ha riconosciuto lo stesso Fassino. E questo rende i torinesi diffidenti verso l’ottimismo professato da Renzi, che l’ex sindaco ha preferito non coinvolgere nella campagna elettorale. Invano.
Il sistema che finora ha governato Torino nacque nel 1993 a casa di Gianni Vattimo, poi pentitissimo. L’architetto fu Enrico Salza, presidente della banca San Paolo, che d’intesa con il segretario del Pds Chiamparino mise in campo il rettore del Politecnico, Valentino Castellani, contro la Lega e contro il veterocomunista Novelli. Il 20 giugno Castellani fu eletto sindaco. Ma alle politiche di nove mesi dopo, Chiamparino veniva umiliato nel sacro collegio di Mirafiori dal candidato di Forza Italia: il leggendario Alessandro Meluzzi, poi cossighiano, diniano, verde, mastelliano e ora primate di un ramo scissionista della chiesa ortodossa, con il nome di Alessandro I. Chiamparino ebbe la sua rivincita come sindaco delle Olimpiadi: le sue partite a scopone con Marchionne suggellarono l’intesa tra i poteri egemoni. Andò poi a presiedere la Compagnia di San Paolo, prima di lasciare il posto a Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico.
«Torino è in mano ai soliti noti» dice la Appendino; e un po’ ha ragione. La direttrice del Circolo dei lettori diventa assessore regionale alla cultura, il capo del personale di Mirafiori diviene presidente dell’Aeroporto, la presidente del Teatro stabile passa al museo Egizio. La difesa è che il sistema funzionava: la città è più vivace di un tempo; la cultura industriale ha prodotto ricerca e tecnologia, cui si è affiancato il turismo spinto da Slow Food e Eataly. Ma Torino non ha più il peso demografico, economico e quindi politico che aveva nell’era fordista. La disoccupazione giovanile è drammatica, il peso dell’immigrazione grava sulle classi popolari.
Chiara Appendino – bocconiana, un’esperienza alla Juventus, ora al controllo di gestione nell’azienda del marito – ha raccolto i voti dei ragazzi che dal sistema si sentono esclusi, e della Torino piccoloborghese da sempre diffidente della Fiat: calamita per i piemontesi del contado e gli immigrati del Sud, incubatrice di scioperi e violenze. I 5 Stelle non hanno scelto una personalità carismatica e quindi divisiva, da amare o da odiare; ma un sorriso fresco e un nome nuovo, apparsi come uno specchio in cui l’elettore intravedeva se stesso, e la propria domanda di novità.
Fassino, da lavoratore cocciuto qual è, ha chiamato a raccolta i suoi e ha combattuto sino alla fine. Sarebbe ingeneroso liquidarlo come espressione di un establishment. Ha saputo comunque tenere insieme un’alleanza che si dividerà al referendum di ottobre: l’intellighentsia torinese, a cominciare dai fratelli Zagrebelsky, anima la campagna per il No.
Torino è stanca. Il proverbiale scetticismo che indignava il Duce – «porca città francese» – e teneva lontano Berlusconi, mai a suo agio sotto la Mole, la rende refrattaria anche al renzismo. Le elezioni non sono state un fatto soltanto locale. E non sarà la riforma del Senato, da sola, a scaldare i cuori, e a motivare la base del centrosinistra. La città che ha fatto l’Italia due volte, nella politica e nell’industria, attende risposte urgenti su almeno tre punti: il lavoro per i giovani; le tasse; l’immigrazione.

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e.c. per la Repubblica
Il papà della candidata leghista a Bologna, Lucia Borgonzoni, ieri nel pieno della fibrillazione elettorale ha detto: «A votare Lega proprio non ce l’ho fatta». L’architetto Giambattista Borgonzoni ha confermato la sua posizione di “moderato di sinistra”, nonostante l’affetto per la figlia. «Una politica sapiente verso i ceti popolari non può basarsi sulla paura del diverso – ha spiegato – ma su un atteggiamento inclusivo che comprenda più Europa, non meno Europa». La candidata del Carroccio ha spiegato nei giorni scorsi di essere leghista “per parte di madre”, mentre il suo papà è sempre stato di diverso orientamento politico. In particolare l’architetto Borgonzoni, che definisce la figlia «una carta straordinaria per il centrodestra da giocare in chiave nazionale», non ama proprio Matteo Salvini. «Salvini è un leader casereccio e come osservatore mi chiedo se sia davvero il nuovo che avanza – dice – o se piuttosto abbiamo a che fare con l’erede del partito di Bossi, che ha trasformato la Lega in una formazione patriottarda con una linea simile al Front National di Marine Le Pen. Io diffido del lepenismo salviniano e penso che Bologna abbia una tradizione inclusiva di cui bisogna comunque tenere conto».