Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  giugno 20 Lunedì calendario

Virginia Raggi è sindaco di Roma

Alessandra Longo per la Repubblica
Eccola Virginia Raggi, nuovo sindaco di Roma, eletta con voti schiaccianti e senza appello, assediata da centinaia di militanti ebbri della vittoria già dai primi exit poll. Fa fatica a raggiungere la sala stampa tanta è la gente stipata e urlante per strada, al quartiere Ostiense. Sventolano gli striscioni della rivincita: «Tutti a casa! Tutti a casa!». Adesso arriva lei, già nella parte: «Oggi hanno vinto i romani. Li ringrazio tutti per avermi affidato questo compito importante». Solenne, passandosi le mani sui capelli neri: «È un momento storico fondamentale, una svolta. Sono il primo sindaco donna di Roma, in un momento in cui le pari opportunità sembrano una chimera». Se miracolo è stato, lo deve a Grillo e Casaleggio che cita grata. Si è preparata un discorso breve, improvvisamente ecumenico: «Sarò il sindaco di tutti, anche di quelli che non mi hanno votato». Anche degli orfani del Pd, di Giachetti che le ha già telefonato per congratularsi. Scandisce: «Riporterò legalità e trasparenza dopo 20 anni di malgoverno e mafia capitale. Anni in cui si sono persi i principi che devono guidare un’amministrazione». Per i taccuini anche una sintesi da titolo: «Inizia una nuova era». Non ammette domande, non è nello stile della casa, però si risponde da sola sul tema dei rapporti con le altre forze politiche: «Metto un punto sui toni aspri che hanno usato nei miei confronti. Mi auguro che si possa aprire un dialogo nell’interesse di Roma perché questo è l’obiettivo che mi sono prefissata». Si volta verso i fotografi che la chiamano e conclude ad effetto: «È venuto il tempo di lavorare». La notte per lei sarà lunga con Grillo che dice: «È un giorno storico, da oggi cambia tutto. Ed è solo l’inizio». Poi ringrazia Davide Casaleggio. Davanti a Casaleggio junior che abbraccia la Raggi esultante, i suoi fans la rincorrono rapiti.
Notte pentastellata, tutti a festeggiare al Parco Schuster. Notte in cui cambia tutto, anche a Torino. Passa di mano la capitale, il partito di governo ne esce umiliato, con le ossa rotte. «Belin che movimento!». Ecco gli striscioni dei grillini che gustano la «vittoria sul regime», sull’establishment radical-chic che «si è rovinato con le sue mani perché ha ignorato le periferie». Grillo si aggira dietro le quinte anche lui incontenibile. «Comandiamo noi! Li abbiamo puniti!». Stappano le bottiglie all’hotel Forum dove è rintanato per ore. Passata la mezzanotte, Virginia Raggi esce dalla sua tana. Ci sono duecento giornalisti ad aspettarla, anche i giapponesi. «Che bella giornata», aveva detto al seggio avvolta in una camicia bianca alla Giovanna d’Arco. Ed è, perlomeno per lei, davvero così. Roma cambia verso. Virginia Raggi affonda le banderillas grilline nel corpaccione stanco del Pd romano. Sarà lei il nuovo sindaco di Roma. Sarà lei, «la co.co.co pro della Casaleggio Associati», come l’aveva definita, forse incautamente, Matteo Renzi, ad occupare lo studio più bello del mondo, quello che affaccia sui fori imperiali. Dire che si fa strada l’euforia pentastellata è dir poco. Non ci saranno i saluti romani in Campidoglio, come ai tempi di Alemanno, ma il clima di presa di potere è palpabile. Sussurri: «Ci prendiamo la città, ora governiamo noi e per loro è finita!». Brividi di onnipotenza: «Abbiamo umiliato Renzi». Roberto Giachetti è già un ologramma, la vittima sacrificale di un disegno superiore, un «predestinato». Tutti si inchinano. Si congratula con lei la Meloni, e il marito, con cui è in crisi dichiarata, le scrive entusiasta; «Brava Virginia».
Che eccitazione: padroni di Roma. Virginia Raggi mantiene l’atteggiamento di sempre, una smorfia di soddisfazione che le increspa le labbra. Che abbiano scoperto le sue bugie sugli incarichi all’Asl non le importa granché, al momento. La vittoria è sua, e che vittoria. Netta, bruciante. «Quando entreremo in quella stanza per loro sarà la fine», aveva detto. E i romani delusi, arrabbiati, in cerca di sogni, le hanno aperto una linea di credito. Dopo il voto al seggio sotto casa, in compagnia del figlio Matteo, già sentiva il profumo del comando. Su Facebook una scritta dall’Inferno dantesco: «A riveder le stelle...». Mai pensato di perdere, evidentemente.
Non una storia qualunque, quella della Raggi. Pensate: da perfetta sconosciuta, da consigliera comunale eletta nel 2013 con 1525 preferenze, a sindaco di Roma. A 37 anni sulla stessa poltrona che fu di Argan e Petroselli, per la verità ultimamente occupata da Alemanno e Marino. Autostima alle stelle per un intero gruppo dirigente: da Di Maio alla Taverna, alla Lombardi. E adesso chi li tiene. I più forti: così dicono i numeri. Ma adesso viene la seconda parte, quella del governo delle città dove i Cinquestelle non sembrano brillare. Le periferie che hanno votato Raggi andranno all’incasso. La giovane sindaca dell’Urbe dovrà occuparsi di buche, rifiuti, e municipalizzate. Da oggi non sarà più colpa degli altri. Di Maio, aspirante premier del futuro, avverte Renzi: «Ora siamo pronti a governare».

***

Mattia Feltri per La Stampa
Virginia Raggi rimane lassù. E qua sotto la notte è tutta loro, dei militanti, che infine sono arrivati insieme ai numeri, alla rivoluzione, alla rabbia che sfoga in vaffa per Renzi, in inviti indistinti ad andare a lavorare, all’urlo ossessivo e catartico onestà-onestà. Virginia Raggi rimane lassù, impressa sul muro di un palazzo dove i ragazzi del Movimento proiettano le immagini de La7. Guarda la sua Roma, ha le pause scenografiche, dice che “comincia una nuova èra”, che “è la vittoria è di tutti”, che di tutti sarà sindaco, che la guerra è finita e comincia la storia della riscossa popolare. Non può scendere fra noi perché siamo indisciplinati, e il migliaio di fan salta, sventola le bandiere, tende le sciarpe, balla coi cani rivestiti con bandane a cinque stelle. “Troppo pericolo”, dice Rocco Casalino in contatto con la Digos. Poco prima, ed erano le dodici e mezzo, Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio erano stati travolti di muscolare passione, abbracciati, trascinati via mentre gridano: “Ci hanno dato fiducia per il governo delle città, presto ce la daranno per il governo del paese”.
Eppure fin a poco prima tutto sembrava così lontano. Poca gente con le spille davanti alle molte telecamere. Due gridolini per gli exit poll. I parlamentari non avevano ancora nulla da dire e molto da sorridere: sapevano quello che sapevamo noi, Roma era presa, solo mancava il timbro notarile. Che trionfo clamoroso e a lungo sterilizzato: la scenografia popolaresca era quella pasoliniana del Gazometro, scuro sullo sfondo. Il quartier generale dei cinque stelle – nome militaresco stasera meritatissimo – era irraggiungibile. Stavano tutti in un ex pastificio di una viuzza bloccata con le transenne, vicino all’hotel per turisti russi e giapponesi, di quelli che hanno il viaggio pianificato al millimetro, ieri destinato anche ai giornalisti. Bloccato pure un passaggio pedonale parallelo sulla cui percorribilità la Polizia di Stato e la sicurezza grillina avevano idee contrastanti. “Abbiamo bonificato i parcheggi tutto intorno”, dicevano i vigili urbani. È così, il Movimento rimane diffidente, acentrico, non ha un cuore geografico, non ha nemmeno ansia di bagni di folla: i tifosi restano dietro le transenne, con le loro bandiere, erano venuti militanti dalla Sabina, dal frusinate, uno già visto nelle piazze dei Forconi si presentava vestito da D’Artagnan e diceva “bonsoir”. “È uno tsuanami che ribalta tutto il mare, che arriverà ovunque”, spiegava uno con la visiera da croupier.
E poi, insieme i numeri, con l’ufficialità del cannoneggiamento, finalmente sono arrivati i militanti rossi in volto, ad abbracciarsi, donne in lacrime, vene del collo gonfie: “Via i topi, via i ratti”. Hanno invaso l’albergo, spazzato via la sala stampa, come hanno spazzato via il Pd dalla città. Non è Virginia Raggi la vincitrice. Non è lei con i suoi quasi trentotto anni, con la sua coraggiosa e strana e a tratti impacciata campagna elettorale. Non hanno avuto un peso le gaffe, la quasi totale incapacità oratoria, le oblique vicinanze professionali, da Cesare Previti agli amici di Gianni Alemanno, i contratti non limpidissimi con la Asl di Civitavecchia, le calunnie sul suo ruolo in Mafia capitale, la piccinerie sulle sue inesistenti foto a fianco di Silvio Berlusconi. Hanno pesato meno di zero certe stramberie come l’imposizione di residenza in appartamento ai rom abbienti, la lotta alla stratosferica produzione di rifiuti anche attraverso i pannolini lavabili per infanti. Ha vinto come avrebbe vinto Pinco Pallo se il candidato fosse stato Pinco Pallo. Questa è la rivoluzione.
Intanto però i festeggiamenti sono per questo avvocato nato e cresciuto a San Giovanni, con un marito e un bambino, che è la prima donna al comando di Roma in quasi tremila anni di storia. “Sì, è una donna, ma è più importante che sia del Movimento cinque stelle”, dice una donna bionda che punta il dito contro senza intenti minatori: “Adesso onestà… onestà”. Ecco, pare che Roma stamattina si sveglierà onesta. Sono venuti a dircelo Di Maio e Di Battista che la rivoluzione è già qui, in mezzo a noi. Che adesso la musica cambia. La città più refrattaria alle regole e alle imposte, coi tassi di assenteismo più altri d’Italia, con la più meravigliosa predisposizione all’anarchia dell’emisfero, ha scelto Raggi e ha scelto l’onestà. Oggi sarà un 25 aprile. Che cosa succederà dal 26, lo sa soltanto il cielo.

***
Sergio Rizzo per il Corriere della Sera
Una donna di 37 anni sindaco di Roma. Bel colpo. Anche se per Virginia Raggi sarebbe stato davvero più difficile perderle che vincerle, queste elezioni. Divisa la destra, più interessata alla successione a Silvio Berlusconi che alla battaglia per il Campidoglio, al punto da dissipare un patrimonio di consensi che avrebbe potuto significare quantomeno il ballottaggio. Spappolata la sinistra, reduce dalla stagione controversa di Ignazio Marino. Il Partito democratico, con pesantissime responsabilità nello sfascio della città, commissariato e lacerato dalle spaccature interne, a leccarsi le ferite di Mafia Capitale. Mentre il fuoco amico di Stefano Fassina & co. era sempre in agguato. Un disastro che ha costretto Roberto Giachetti a fare tutta la corsa in salita. E se resta il dubbio di come sarebbe andata a finire per il Pd se la scelta fosse caduta su un candidato più autorevole e meno identificabile con l’attuale gruppo dirigente, la pera era comunque matura. Donna, per giunta giovane: almeno in un Paese dove la pubertà si supera a quarant’anni. Evviva. Ma ora si fa sul serio. Per il Movimento fondato da Beppe Grillo è la prova cruciale, che potrebbe pesare non poco nella prospettiva delle prossime elezioni politiche. Perché governare una città come Roma è forse più complicato sotto certi aspetti che tenere in mano il timone del governo centrale.
Di Virginia Raggi sappiamo poco o nulla. Per quasi tre anni è stata in consiglio comunale, in uno sparuto plotone apparso molte volte privo di potere decisionale. Come quando, dopo l’estromissione del democratico Mirko Coratti dalla presidenza dell’assemblea perché coinvolto in Mafia Capitale, avevano accettato informalmente l’incarico di vicepresidente per uno di loro, salvo poi ritirare la disponibilità ad assumersi tale responsabilità in seguito all’intervento del triumviro Alessandro Di Battista. Sempre più l’uomo forte del Movimento a Roma. Dove la partita si annuncia durissima. E le idee, almeno a giudicare dalla campagna elettorale, non sembrano così chiare: come dimostra la circostanza che a dispetto degli annunci iniziali l’organigramma della giunta non è ancora completo.
Virginia Raggi ha puntato soprattutto a rassicurare. Prima i dipendenti del Comune. Poi i tassisti, che hanno rappresentato per il Movimento 5 Stelle una solida base elettorale come già lo erano stati otto anni fa per il centrodestra. Quindi i dipendenti dell’Atac, un’azienda delicatissima per la funzione che ha ma letteralmente allo sbando da anni, strozzata com’è nel groviglio di interessi politici, sindacali e affaristici. E ora per il Movimento 5 Stelle arriverà inevitabilmente il momento di onorare le promesse. Avendo ben chiaro che il nuovo sindaco non potrà contare minimamente sull’aiuto di Palazzo Chigi, dove la tentazione di mettere in difficoltà la giunta grillina della Capitale sarà, temiamo, una costante. I nodi verranno subito al pettine. Virginia Raggi ha detto di voler rinegoziare il vecchio debito del Comune, che costringe i cittadini romani a pagare le addizionali Irpef più alte d’Italia. Ma intanto quel debito è affidato a un commissario straordinario nominato dal governo: oggi è Silvia Scozzese, già assessore al Bilancio della giunta di Ignazio Marino. I debiti sono poi in gran parte costituiti da mutui con la Cassa depositi e prestiti, banca controllata dal Tesoro. E per rinegoziarli bisogna che il governo sia d’accordo. Ancora? La questione del salario accessorio, che aveva provocato un contrasto durissimo fra Marino e i sindacati, di sicuro riesploderà, visto che il ministero del Tesoro ha considerato illegittima la distribuzione a pioggia di quelle somme aggiuntive rispetto allo stipendio. Per non parlare della rotazione dei vigili urbani, bloccata da una curiosa sentenza del giudice del lavoro. O dei lavori della Metro C, l’opera pubblica più costosa e problematica, con il pandemonio di carte bollate, contenziosi e veleni che li accompagna: il governo sta cercando di scalzare il Comune.
Con Matteo Renzi si annuncia perciò una partita a scacchi con il rischio di finire costantemente sotto scacco. E la storia insegna che governare la Capitale avendo un governo politicamente ostile non è affatto semplice. Per tutto questo servirebbe un fisico bestiale. Ma pure autorevolezza e credibilità, condizioni necessarie per quell’autonomia decisionale della quale molti hanno dubitato. Sono qualità che adesso auguriamo a Virginia Raggi di riuscire a dimostrare, facendo dimenticare le troppe omissioni del suo curriculum. Per chi giustamente predica la trasparenza assoluta, quelle non sono certo un bel biglietto da visita.

***

Mauro Favale per la Repubblica

Da quelle 1525 preferenze incassate nel 2013 sembra passata un’era geologica: in Comune c’era Ignazio Marino e il sindaco “marziano” flirtava con i 5 Stelle. Anzi, proprio con lei, giovane avvocato appena entrata in Consiglio, che l’allora primo cittadino avrebbe voluto nella sua giunta. Era quasi fatta. Poi fu Beppe Grillo a stoppare tutto. Da allora Virginia Raggi di strada ne ha fatta parecchia ed è «andata a dama», come ama ripetere. Tra un mese, il 18 luglio, compirà 38 anni. La prima donna sindaco, la più giovane. Ieri, mentre festeggiava tra risate, lacrime e sorrisi, il marito, Andrea Severini (il primo a coinvolgerla nel MoVimento) le scriveva una lettera pubblica, sul suo blog: «Per noi è un momento difficile è inutile nasconderlo, ma io sarò sempre accanto a te. Che gioia, che emozione. Grazie. E una cosa ancora: mi manchi da morire». Anche questa è trasparenza. Lei, intanto, è in tv, parla, con toni misuratissimi: «Mettiamo un punto ai veleni di questi giorni», dice. Da oggi siederà nell’ufficio che è stato di Argan e Petroselli ma anche di Alemanno e Marino. Ci entra forte di una percentuale (al netto dell’affluenza) che nessuno aveva mai raggiunto a Roma. Ci entra dopo una campagna elettorale giocata in contrapposizione ai «poteri forti». A partire da quel “partito delle Olimpiadi” che prima ha cercato di blandirla, poi di convincerla e, infine, le si è messo esplicitamente contro. «I Giochi non sono una priorità – ha ripetuto la Raggi allo sfinimento – alla città serve normalità». Adesso il nuovo sindaco si troverà a gestirne il dossier: l’ipotesi è quella di coinvolgere il consiglio comunale per lanciare un referendum così che l’ultima parola sulle Olimpiadi la pronuncino i romani. Nella sua corsa verso il Campidoglio, ha pure lanciato un segnale ai costruttori, con la nomina di Paolo Berdini all’Urbanistica, nome noto in città soprattutto per le sue battaglie contro i palazzinari. Al contrario, negli ultimi 3 mesi, la Raggi più di una volta ha speso parole al miele per dipendenti capitolini e per quelli delle municipalizzate (sullo sciopero in contemporanea alla prima partita dell’Italia all’Europeo ha detto: «Una coincidenza»). Ha preso le parti dei tassisti contro Uber, degli albergatori contro AirBnb. Più rassicurante che “di rottura”, anche così è riuscita a prendere la valanga di voti che l’hanno sospinta fino alla vittoria. Nel suo programma ha parlato di «una rivoluzione gentile». Nei prossimi giorni, da sindaco, convocherà immediatamente i dirigenti del Campidoglio e a loro spiegherà che «la musica è cambiata». Sono previste rotazioni, soprattutto nei dipartimenti finiti al centro degli scandali. Urbanistica, prima degli altri. Poi metterà mano ai centri di spesa che si occupano di appalti e affidamenti diretti. «Sempre in contatto con la procura», dicono dal suo entourage. «Se troviamo qualcosa di sospetto lo portiamo immediatamente da Pignatone». Al dirigente Consob Marcello Minenna (negli ultimi mesi nella segreteria tecnica del commissario Francesco Paolo Tronca) affiderà la superdelega al Bilancio e al patrimonio. Sarà lui ad avviare l’audit sul debito del Campidoglio, il macigno di 13 miliardi che grava sulle casse del Comune. «Non conosciamo nemmeno chi sono i nostri creditori», ha detto la Raggi, mettendo in discussione «l’imparzialità» di Silvia Scozzese, commissario al debito nominata dal governo che Roberto Giachetti avrebbe indicato come suo assessore. Poi, tra i primi atti, ci sarà anche la pubblicazione on line di tutte le spese del Campidoglio. «I romani devono sapere come vengono spesi i loro soldi». Nel frattempo, dovrà scegliere chi sarà il suo vice. Lo deciderà oggi e forte dei voti potrebbe imporre il nome del fedelissimo Daniele Frongia. Chiudendo così la porta in faccia a Marcello De Vito, mister preferenze del’M5S, l’uomo indicato dalla (ex?) rivale Roberta Lombardi. Una mossa che potrebbe segnare l’inizio della sua sindacatura.