ItaliaOggi, 17 giugno 2016
Un aiutino a Hillary da parte delle felpe californiane
Sul mio comodino da molti anni ci sono tre libri, uno stanziale, Borges (Tutte le opere, Meridiani Mondadori, 1984), due mobili, nel senso che mi seguono quando viaggio, specie se vado in America: Allan Bloom (La chiusura della mente americana, 1987) e Angelo Codevilla (La Classe Dominante, ho il privilegio di essere il suo editore). Quest’anno nel viaggio a New York ho scelto come guida alle mie analisi un concetto di Allan Bloom, poco commentato (ricordo che per tutta la sua vita, specie dopo il ’68, Bloom fu odiatissimo dalle élite universitarie e da tutte le cosche liberal al potere, le stesse di oggi, gli costò di certo il Nobel).
All’inizio degli anni ’90, quando tutto l’Occidente, specie le Classi Dominanti, erano in preda a orgasmi multipli nell’attesa del mondo nuovo che sarebbe nato dalle ceneri del comunismo (coniarono il termine stravagante “stalinismo”, come se Lenin non fosse un criminale come Stalin, in realtà per coprire loro stessi, vergognandosi di essere stati comunisti mascherati da liberali), Allan Bloom contestò, per primo, l’idea trionfalistica secondo la quale il capitalismo liberale aveva sepolto per sempre il fascismo e il totalitarismo. Scriveva Bloom “Qualora si dovesse cercare un’alternativa non c’è altro luogo dove cercarla. Mi permetto di suggerire che il fascismo ha un futuro, per non dire il futuro.”
Che il fascismo abbia un futuro nel ceo capitalism nel quale siamo immersi è possibile, che altro sono, politicamente parlando, le aziende-canaglia di Silicon Valley? Altro che il giornalismo d’inchiesta americano, se vogliamo conoscere aspetti sconvolgenti sulla campagna elettorale di Hillary Clinton supportata da costoro, dobbiamo avvalerci di Assange, un rifugiato politico in un piccolo paese coraggioso come l’Equador, da anni ospite nella sua ambasciata di Londra (dalla sua stanza-prigione vede chi entra e esce da Harrods).
Sappiamo tutti come Obama è diventato Presidente, uno di questi metodi è stata la capacità del suo, non trovo il termine, diciamo “staff”, di raccogliere/analizzare enormi masse di dati, “profilare” (come dicono i colti) gli elettori, dividendoli in nicchie elementari, da aggredire con messaggini personalizzati, e costruendo introno ad essi eventi altrettanto personalizzati.
In queste elezioni, dove la vittoria di Hillary è questione di vita o di morte per le “felpe californiane”, queste non si limitano a dare quattrini per la sua campagna elettorale, ma la supportano tecnicamente nell’operatività (non ho dubbi che sia tutto legale, com’è stato per il patrimonio personale di Bill, zero all’uscita dalla Casa Bianca, 150 mln $ dieci anni dopo). Se vince Trump i loro enormi investimenti sulla lobbying (nel loro caso curiosamente identificata col prodotto) sono da buttare o da riposizionare.
Secondo Assange, mai smentito, lo stesso Schmidt, Presidente di Alphabet (holding di Google) ha creato una start up apposita (Grounwork) per sostenere Hillary. Ma non basta, Facebook nei giorni scorsi è stata accusata di aver manipolato, intervenendo con modalità umane, sugli algoritmi, per depotenziare la visibilità nelle bacheche dei propri utenti di temi favorevoli ai repubblicani. Altro che trasparenza, il supporto avviene tra le pieghe di piattaforme e algoritmi atti a bombardare il nostro cervello e piegare la nostra volontà più profonda. È la modalità, tecnologicamente innovativa, con la quale i potenziali dittatori invocavano nei primi decenni del ‘900 un nuovo rapporto fra governati e governanti, lo faceva Hitler, ora con modalità diverse, lo fanno costoro.
Quando Allan Bloom sosteneva che il fascismo aveva un futuro, le felpe californiane erano all’asilo, ma la sua intuizione fu straordinaria. In fondo era l’idea di Mussolini, Hitler, Stalin, banale e al contempo geniale, convincere persone normali che, se ben guidate, potevano fare qualcosa di straordinario. Hannah Arent lo scrisse in tempi non sospetti “È come se l’umanità fosse divisa tra quelli che credono nell’onnipotenza umana e quelli per cui l’impotenza è diventata la maggior esperienza della propria vita.”
Il ceo capitalism di rito californiano è banalmente questo. Sono manager-ideologhi da strapazzo, non sanno mettersi in discussione, non uno straccio di autocritica, rifiutano di prendere atto che le loro teorie altro non sono che uno dei tanti possibili punti di vista sul mondo, e che tutti questi hanno medesima dignità.