Il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2016
Storie di gatti, fenicotteri, tigri, serpenti, gechi, muli e soprattutto cinghiali
Benvenuti nella fattoria degli animali della narrativa italiana. Qui non si tratta, però, di comandamenti ideali, di maiali che somigliano agli uomini e viceversa. Sono storie di gatti, fenicotteri, tigri, serpenti, gechi, muli e soprattutto cinghiali.
E uno di questi cinghiali, allontanandosi dai campi di granturco e dalle fattorie, è entrato nella cinquina dei finalisti del Premio Strega.
È Il cinghiale che uccise Liberty Valance di Giordano Meacci (minimum fax, pagg. 452, 16 euro). È partito da Corsignano, paese immaginario al confine tra la Toscana e l’Umbria, per arrivare fino a Roma, lasciandosi alle spalle una serie di personaggi e di nomi che si confondono con il paesaggio che li circonda, a metà tra uno scenario western (il titolo, non a caso, rievoca un celebre film di John Ford) e una classica landa desolata della provincia italiana.
Il tempo lì sembra essersi fermato alle soglie del nuovo millennio, e si ha l’impressione che possa accadere qualcosa di tragico da un momento all’altro. In un luogo pieno di ricordi, dove il vento si confonde con il respiro umano e animale, c’è una banda di cinghiali, la sua banda, nella valle boscosa del Nardile, che formano una piccola comunità e che hanno inventato una loro lingua: il “cinghialese”.
Meacci conosce la loro lingua e parla per bocca di Apperbohr, o forse è il contrario, “come se il suo stesso sangue gli parlasse in una lingua appena nata”, tra lavoratori, donne abbandonate, misteri e credenze medievali, viene fuori un ritratto a colori di un’umanità che sembrava perduta, destinata a essere dimenticata per sempre, ascoltando i rumori, i battiti, la musica dolce e violenta del regno animale.
Esiste anche La teologia del cinghiale (elliot, pag. 240, 17,50 euro), inventata da Gesuino Némus per tinteggiare di giallo e di humour nero i delitti e i misteri dell’entroterra sardo.
Spostandoci nella Sicilia del dopoguerra, in Diecimila muli. Un romanzo di uomini e bestie di Salvatore Maira (Bompiani, pagg. 518, 19 euro), troviamo Peppino Maiorana, un giovane commerciante di bovini che, affiancato da un commissario di polizia, dovrà trovare diecimila muli in tutta l’isola da dare alla Grecia, come risarcimento dei danni di guerra. Ma perché proprio i muli?, si domandano gli abitanti dell’isola. “Col mulo ci puoi arare, far girare il mulino, tirare il carretto, attraversare le montagne”, ecco perché, “il mulo è la vita”.
Salendo verso i cieli del nord e arrivando ai tempi nostri, incontriamo le vite di Francesco Collaneve, Federico Morpio e Adele Cassetti. Ne Il grande animale di Gabriele Di Fronzo (nottetempo, pagg. 160, 12 euro), Collaneve è un tassidermista, un imbalsamatore, un essere umano consacrato agli animali, abituato a offrire loro una seconda vita, immobile e fuori dal tempo. “Il mio lavoro– confessa Francesco – ha a che fare con la parte viva dei morti”.
E oltre a dipingere biglie che sembrino occhi, a truccare il tempo di gatti, serpenti, fenicotteri, tigri, la grande opera della sua vita è quella di creare un elisir per “allestire il vuoto” nella casa del padre, il grande animale, dopo la sua scomparsa, “per fermare il suo essere vecchio”, per imbalsamare anche i ricordi e “dare eternità alle cose”.
Ne Il brevetto del geco di Tiziano Scarpa (Einaudi, pagg. 336, 20 euro), ambientato tra Milano e Venezia, si muovono Federico Morpio, un artista fallito che ingrandisce i volti delle persone per mostrare come sono fatti davvero, e Adele Cassetti, che lavora in un’azienda di stampi in acciaio e passa le sue giornate davanti al computer, a guardare l’immagine sfocata di sé negli zoom di Google Maps.
Una notte, appena uscita da un incubo, Adele va in cucina e s’imbatte in un geco. Allora prende la scopa, spazza il muro per farlo cadere e accade il “mirabile”. Nonostante la microforesta piantata nelle sue ventose e le interazioni di Van Der Walls, il geco cade nella pentola e non riesce più a uscire. Adele, che cerca da tempo qualcosa in cui credere, scopre che il teflon della pentola è l’unico materiale capace di ingannare la scienza e di annullare il “brevetto esistenziale” del geco, e si converte al Cristianesimo. Il geco, il cinghiale, i muli, gli animali imbalsamati, vengono fuori dal bisogno di farsi sentire, di essere ascoltati, di trovare parole capaci di esprimere tutto quello che abbiamo dentro, che scoppia, si muove, fa rumore, qualcosa che forse ancora non ha un nome. È come inventarsi una nuova lingua, un nuovo sguardo, una nuova forma d’amore: “Se si potesse dire amore in cinghialese: se si potesse dire amore in qualsiasi lingua”.