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 2016  giugno 17 Venerdì calendario

A Roma e a Torino tutti in cerca di voti

ROMA
Carlo Bertini e Giuseppe Antonio Falci per la Stampa
Ora lo sforzo si ingigantisce, l’ultimo miglio può sembrare una montagna da scalare, ma Bobo Giachetti ci prova fino all’ultimo, perché «ce la possiamo giocare per mille voti». Per dare l’esempio alle nove di sera si chiude con la Boschi nel suo comitato di San Lorenzo a fare telefonate, «dobbiamo chiamare tutti, ex compagni di scuola, ex fidanzate, se riusciamo a convincere due persone a testa ce la giochiamo sul serio», azzarda la testimonial del governo. Dopo i discorsi entrano nel salone con i volontari e chiamano il primo. Tal Marcello. «Sono Giachetti, non è uno scherzo, cosa farai domenica? Non andrai al mare? Ti passo una persona». «Ciao, sono Maria Elena, ti do del tu anche se non conosco la tua età. Quante persone riuscirai a convincere per il voto di domenica? Cinque? Allora vogliamo i nomi, così dopo li chiamiamo per verificare». Si fa il numero di un Fabio che è occupato. Poi si tenta con Stefano, lei prova a convincerlo, «mi raccomando prova a portare un po’ di persone...». Insomma il clima è questo, un porta a porta telefonico che in queste ore coinvolge tutti i deputati romani chiamati in causa.
Giachetti le prova tutte: prova a fare il pieno a sinistra con l’effetto immagine che può avere un incontro a braccetto col sindaco di Cagliari appena neoeletto, icona degli amministratori di Sel. O magari rendendo pubblici forse oggi altri tre nomi della sua eventuale giunta, che avranno sempre il profilo di quelli già noti, da Turco a Rossi Doria. Tentando però di pescare in tutti i bacini, a destra e a manca, perché dopo la penalizzazione al primo turno per gli errori del passato, dopo il voto di protesta che pure è comprensibile, tutti quelli che hanno votato Meloni e Marchini e Fassina devono rendersi conto che la scelta è tra «una mano ferma» che sa governare la città e «un’avventura» che può rivelarsi disastrosa. Questo il messaggio che tenta di far passare Giachetti. E per questo il candidato di un Pd dilaniato dai veleni ieri per dare un segnale ai compagni si è fatto vedere con il sindaco più di sinistra di tutta la compagine eletta nell’era Bersani, cioè il cagliaritano Zedda. «Il mio è un appoggio da sinistra sperando in una ricomposizione a Roma, perché anche in politica stare a casa da separati non va bene». Primo assist. Secondo, un graffio alla Raggi. «Sono qui con Giachetti anche perché Cagliari è inserita nel dossier olimpico di Roma 2024 per quanto riguarda la vela. Non so cosa abbia fatto l’insegnante di educazione fisica a Virginia Raggi, magari non la faceva giocare a pallavolo, sennò non si capisce perché odia così tanto lo sport». Poi si passa ad un incontro con Delrio, che promette il prolungamento della metro B da Rebibbia a Casal Monastero. E infine al meeting con la Boschi. «Come tento la zampata? Solo convincendo uno ad uno gli elettori. Infatti giro le periferie con i pulmini, mi muovo a tappeto su territorio perché sappiamo che si gioca su un voto. Dunque dobbiamo fare in modo che chi è andato votare al primo turno torni al seggio. E bisogna riuscire a entrare nel fronte di destra e di sinistra». Anche se su quello dei compagni si sente più coperto. «È stato un processo lento ma c’è stato un posizionamento di qualcuno di Sel», nota speranzoso il candidato renziano.
I suoi punti cardine sono quelli dei si e dei no «a una città che ha bisogno di riscatto: io posso esser in grado di fare le Olimpiadi senza far danni, con il no la città si paralizza». Per dirla con il capo della sua campagna, Luciano Nobili, «ora la gente deve capire che il cambiamento vero di pratiche del passato ci sarà con noi, non con la Raggi». Nel Pd incrociano le mani e pregano per il miracolo.

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Milano
Alberto Mattioli per la Stampa


Bisognava arrivare all’imminenza del ballottaggio perché si spargesse finalmente un po’ di pepe sulla campagna elettorale di Beppe Sala e Stefano Parisi. All’ennesimo faccia a faccia, mercoledì a «Matrix», i due manager amicissimi hanno messo da parte il fair play e hanno litigato da bravi telepolitici. Parisi ha accusato Sala di mettergli in bocca progetti che non ha («Dice che voglio abolire l’area C e privatizzare scuole per l’infanzia e centri per disabili, ma non è vero»), Sala ha risposto piccato («Queste cose le ha dette, Parisi scambia spesso idea»). Poi Sala ha apostrofato Parisi: «Chiedetegli chi c’era a Palazzo Chigi a capo del Dipartimento economico nel ’92, ai tempi del prelievo forzoso di Amato. Tra parentesi, era lui, ma poi fare i fenomeni è facile». Replica di Parisi: «Sono orgoglioso della vita che ho fatto e non ho mai rinnegato nessuno con cui abbia lavorato, non come hai fatto tu con Letizia Moratti. Caro Beppe, bisogna avere il coraggio della propria vita e non vergognarsene». Sono volati anche uno «Stai zitto!» (Stefano al caro Beppe) e un «Dici balle!» (Beppe al caro Stefano). Dopo una campagna tutta in punta di forchetta, un finale al sangue. Poi ieri è stato il giorno della polemica sulla sociologa Sumaya Abdel Qader, musulmana, responsabile culturale del Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano, candidata Pd, ben piazzata come preferenze e quindi consigliera in caso di vittoria di Sala. Ma con marito e mamma che postano su Facebook veementi attacchi a Israele. Su di lei, Parisi fa sapere di nutrire «fortissimi sospetti»: «Il problema è molto grande – dice – perché il Caim ha rapporti con i Fratelli musulmani» e «c’è un evidente orientamento del Pd a loro favore». Sala ribatte che sostiene sempre Sumaya, «a sua volta minacciata dai fondamentalisti islamici» e «elemento di dialogo con gli islamici» ma condanna le sparate anti Israele dei suoi cari. Parisi chiede «parole chiare» sul diritto di Israele a esistere come lui le ha dette sui nazisti», e qui il riferimento è alla polemica sul «Mein Kampf» distribuito dal «Giornale», schieratissimo con Parisi. Sullo sfondo, il sempiterno problema moschea. Alla fine si farà: per Sala serve a controllare il proselitismo e a chiudere «i luoghi di preghiera illegali e insicuri», per Parisi bisogna che si accertino «i finanziatori».
Però è difficile che casi del genere possano davvero scaldare l’opinione pubblica. E allora meglio collezionare i sostenitori. Sempre su Facebook, Giuliano Pisapia lancia un appello per Sala firmato anche da un po’ di cittadini illustri, o almeno famosi. Si schierano pubblicamente per Sala anche un po’ di soliti noti della cultura milanese, da Gabriele Salvatores a Lella Costa (invece Dario Fo, com’è noto, ha fatto sapere di essere «tentato» dal voto a Parisi). Endorsement pro Sala anche di Umberto Veronesi, del Codacons e di un nutrito gruppo di cattolici cittadini. Parisi incassa invece, un po’ a sorpresa, l’appoggio di Antonio Di Pietro. In entrambi i campi si fa di tutto per far dimenticare che dietro i due manager prestati alla politica si sono pur sempre i partiti. Sala chiuderà la campagna oggi con una festa all’aperto con molti cantanti e pochi politici, men che meno Matteo Renzi. Intanto Albertini spiega che la quota di voti leghisti per Parisi è «assolutamente marginale», il suo pupillo non sarà ostaggio di Salvini come dicono da sinistra. Infatti Parisi la sua campagna l’ha già chiusa in una discoteca, ma l’unica a salire sul palco con lui è stata Mara Venier per intervistarlo. Però Parisi annuncia per oggi un flash mob di sostenitori in giallo, il colore della sua campagna. Poi finalmente urne aperte e bocche chiuse.
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Torino
Maurizio Tropeano per La Stampa
Se il vento del cambiamento spira dalle periferie allora è lì che bisogna andare. Gli ultimi fuochi della campagna elettorale per la poltrona di sindaco di Torino si giocano tra le vie, le piazze e i mercati di Barriera di Milano, Falchera, Regio Parco e le Vallette. Quartieri popolari, un tempo affollati dalle sezioni del Pci, e anche della Dc, e che adesso sono presidiati da pochi circoli del Pd. Qui, il 5 giugno, in tanti seggi il M5S è diventato il primo partito scalzando i democratici. E Chiara Appendino ha chiuso la campagna elettorale alle Vallette, sotto una pioggia battente, accompagnata da Alessando Di Battista che, con la sua foga, può cercare di alimentare quel vento in grado di abbattere il «sistema Torino» che Appendino impersonifica con il banchiere Enrico Salza, citato e fischiato, dalla piazza.
Anche Piero Fassino è ritornato in quei quartieri ma prima ha messo a punto un’operazione per recuperare il popolo del centrosinistra, quello delle primarie dell’Ulivo e di Romano Prodi. Nei giorni scorsi sono state spedite 50 mila lettere e dal Pd stanno partendo telefonate indirizzate agli iscritti che hanno dato l’autorizzazione. L’obiettivo è riportare al voto gli elettori del primo turno e non solo. 
In questa battaglia sono scesi in campo il presidente del Piemonte, Sergio Chiamparino, e Cesare Damiano, i due esponenti del Pd torinese che hanno continuato a mantenere legami stretti, a volte anche personali, con il mondo del lavoro. E ieri anche il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, che ha chiuso la campagna elettorale. «Chiampa» si è preso la briga di rimproverare Renzi per aver costruito un Pd che ha lasciato indietro «i più deboli». Poi ha firmato con i sindacati un patto che cancella il «lavoro povero» dagli appalti della Regione strizzando l’occhio a chi ha votato per Giorgio Airaudo. Lo stesso ha fatto Damiano.
Fassino, poi, ha cambiato strategia evocando il possibile «blocco» della città in caso di vittoria di Appendino: «Al modello della “decrescita infelice” proposto dal M5S rispondiamo con la nostra idea di “crescita sostenibile”». Una polemica che ha spinto buona parte del mondo industriale – a parte la piccola impresa – a scommettere su di lui. Fassino, infine, ha cercato di disinnescare il voto di protesta separando le comunali dal voto per il referendum costituzionale e incassando l’endorsement di Zagrebelsky.
Appendino, invece, ha fatto di tutto per intercettare il voto politico di tutti gli «arrabbiati» contro Renzi. Domenica scorsa ha partecipato alla prima assemblea pubblica del comitato per il No che si è svolto in Borgo San Paolo, altro quartiere «rosso» di Torino. Una volta ottenuto l’appoggio di Salvini e Borghezio, di Brunetta e di Rosso e anche di Ugo Mattei, teorico dei beni comuni, ha continuato a sollecitare il «voto libero» di chi è contro la riforma della Costituzione. Ma la candidata M5S sa che deve cercare di recuperare gli astensionisti: per lei stanno lavorando gli attivisti che in queste ore si sono attaccati ai telefoni e stanno chiamando tutta la città «perché il cambiamento è a portata di mano». Una scelta che potrebbe portare in conflitto il Movimento con il garante della privacy, sollecito nel ricordare il divieto di «utilizzare i dati contenuti negli elenchi telefonici». Appendino ha reagito all’accusa arrivata dal centrosinistra di essere la «signora dei No» e ha messo in evidenza la sua idea di «un’altra Torino»: meno centri commerciali, più piccoli esercenti. E nei mercati della periferia ha soffiato sul fuoco anti-casta: «Un candidato dei Moderati per Fassino ha speso, sembra, 300 mila euro e non ha pagato i conti. Sì, siamo il partito del No a questa politica».