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 2016  giugno 17 Venerdì calendario

Quando da Milano si arriva a Berlino per ammirare Brecht. Le memorie teatrali di Arbasino

Naturalmente si arrivava da Milano a Berlino col culto di Brecht. E raggiungere il Berliner Ensemble nella zona Est era ancora semplice, col passaporto straniero vistato: bastava prendere la metropolitana allo Zoo e scendere quattro fermate dopo. O addirittura arrivare in taxi mostrando i documenti alla Porta di Brandeburgo (il tassista lasciava la patente). Era difficile forse trovare i biglietti, perché tutti i posti erano sempre bloccati dallo Stato per le delegazioni dell’obbligo, per lo più asiatiche. Dunque un bravissimo amico, il compositore Hans-Werner Henze, cortesemente telefonava al suo collega Paul Dessau, musicista stabile al Brecht e autore dei “songs” di “Madre Coraggio” e del “Signor Puntila”. Che si replicavano coi celebri “cast” originali: Helene Weigel, Ernst Busch, Wolf Kaiser, e gli altri. (Ma per telefonare fra Est e Ovest bisognava
fare un “ponte” via Stoccolma o Praga, perché erano vietate le comunicazioni dirette fra i settori).
In pochi giorni si poteva vedere anche Il Cerchio di Gesso, L’Opera da Tre Soldi, Arturo Ui, La Madre… Come per un corso accelerato e condensato, che comprendeva anche le mirabili messinscene operistiche di Walter Felsenstein nella vicina Komische Oper. In queste sedi ci si sbalordiva soprattutto per il costoso lusso degli spettacoli in un paese povero di tutto, e per il perfezionismo spasmodico degli eccellenti “gag” visivi. Eppure si veniva dai fasti di Visconti e dalla meticolosità di Strehler. Si facevano semmai dei sarcasmi brechtiani: trecento e più dipendenti in teatro per mettere in scena uno straccio poverissimo e uno sgabello rotto.
La residenza dei Berliner Ensemble è questo pomposissimo teatro “am Schiffbauerdamm”, sala molto rococò di settecento posti su un canale già di costruzioni navali della Sprea, tipo «scatola d’ottone traforato», decorata anche più dell’Opéra di Parigi di stucchi dorati e di cariatidi con la bocca piena di trombe. Sopra le meringhe e le ninfe di stucco gira su se stessa la scritta drammaticamente isolata di «Berliner Ensemble» dentro un circolo bianco di neon. In alto in alto sul tetto, nel cielo tutto buio del settore sovietico. E indica la strada a chi esce dalla metropolitana arrivando (prima del Muro) dal settore- ovest. Giù a questa Friedrichstrasse: in un panorama di Partenoni bombardati e fatiscenti, stupenda vista: perché i ridicoli musei dei re prussiani, tutti colonne e absidi e propilei e transetti volgarmente colossali, una volta dilapidati acquistano caratteri di vera grandezza per il Dilettante di Rovine, con le loro aquilacce di bronzo attaccate con una zampaccia sola ai frontoni frananti con su le iscrizioni per i Federichi Guglielmi… I biglietti costano pochissimo, due o trecento lire. E c’è questa leggenda del «tutto esaurito» permanente. Parecchi posti vuoti, però. Dunque, le volte dopo, arrivando all’ultimo minuto, come a Roma, e trovando senza storie dei bei posti nelle file davanti.
La prima impressione degli spettacoli di Brecht riguarda il costo. Neanche i più frenati gattopardismi hanno visibilmente mai avuto a disposizione tanti soldi da spendere, come il Berliner Ensemble coi suoi trecento dipendenti e i tanti mesi di prove, per mettere al centro d’una scena, «reverentemente disposto, intensamente lì» (come diceva H.G. Wells), non già un feticcio autentico del Dugento ma un vecchio oggetto di legno o peltro, come quelli in vendita dagli antiquari da autostrada. Certo, entrare fra le dorate meringhe di questo teatro «am Schiffbauerdamm», e trovare sul palcoscenico una vecchietta costosissima, può richiamare contrastanti sensazioni: il lusso sfrenato delle residenze zariste di Leningrado, ricostituite dopo l’ultima guerra fino all’ultimo broccato e alla minima malachite; la castità degli arredamenti svedesi introdotti in qualche palazzo da miliardari ostili al rococò, e piuttosto propensi al ciliegio piallato, alla canapa grezza.
Lì si incomincia con Madre Coraggio.
C’è già dentro tutto. Le fonti di luci e di musiche crudamente visibili… Le tele di sacco… Dei bei marroncini, dei bianchi- sporchi… L’anti-rappresentazione… L’anti-magia… L’emozione vera buttata via insieme alla falsa… La mancanza di “proiezione” degli spettatori nella scena che si svolge lì davanti, al di là della Quarta Parete Mancante; e la loro non-identificazione con i personaggi della commedia.
L’oligopolio brechtiano condanna il Teatro d’Illusione (cioè il Realismo) identificandolo nel Teatro della Simpatia (cioè la Tragedia). La tragedia afferra infatti il pubblico, e lo costringe all’adesione, con tutte le ruffianerie del Più Vero del Vero. Si serve delle trappole più indecenti, dalla Visione Tragica di Lukàcs alle introversioni stanislavskiano-aristoteliche del Teatro d’Arte di Mosca e dell’Actor’s Studio. È un fregio continuo che non ammette l’intervallo demistificante. Grida «Vietato Fumare!». Fa una questua di sentimenti. Offre catarsi come se fosse Sambuca.
Invece: mai sollecitare la “solidarietà” dello spettatore. Guai se ritiene di “partecipare” a un Evento-che-sta-avvenendo: il Teatro Epico gli propone semplicemente un rapporto di avvenimenti accaduti altrove, ad altri. Invece di solleticargli le milze, cerca piuttosto di fargli trovar sensati i giudizi suggeriti dall’autore, che lo mette con una certa insistenza sulla Buona Strada… Ora, se invece di indottrinarsi o divertirsi con l’Alienazione, uno s’addormenta durante gli interminabili dialoghi di Madre Coraggio col cuoco, col cappellano, col comandante e i soldati? Se invece di riflettere «non ci avrei mai pensato… che sorpresa!... ma si può!... qui bisogna smetterla… queste sofferenze mi commuovono… ci sarà pure una via d’uscita… che grande arte: niente pare ovvio (o “inevitabile”)… rido di chi piange, piango di chi ride!». (Come Giordano Bruno e Charlie Chaplin)… Ma se si viene presi dalle stesse commozioni già provate per Titina de Filippo, quando Helene Weigel tira il carro sulla piattaforma girevole, cantando «possono ancora accadere miracoli la guerra non è ancora finita», magnifico song di Paul Dessau… Alcuni Momenti Teatrali più alti del nostro tempo si trovano in questa commedia: come alla morte di Medea della Callas, alla lettura delle massime nella École des Femmes di Jouvet, alla scena del letto nel Kean di Brasseur, a Ruggeri in Tutto per bene, uno si sente debitore d’una ben profonda emozione alla meravigliosa morte di Kattrin sul tetto della capanna. E alla scena del riscatto, quando dopo le trattative vane Madre Coraggio viene confrontata al cadavere del figlio, e deve fingere di non riconoscerlo.
La Weigel qui fa qualche passo verso il corpo, ha i lineamenti duri, le labbra strette; scuote la testa, e si siede immobile; nient’altro. «I figli so’ figli!». Ma anche se il pubblico piange al momento sbagliato, questo è grande teatro: come un certo tipo di melodramma demoniaco che spinge l’Alienazione a ludibri ancora più allucinanti. (Tra le sfrontatezze del Macbeth di Verdi; lo sgallinamento delle streghe, la marcetta da luna-park di Re Duncano alla Corte di Busseto, i prindisi Louis Philippe di Lady Macbeth, sempre a Busseto).
Il primo arnese che si vede entrando è l’ormai celebre Siparietto Brecht, con le sue due tendine chiare alte due metri e mezzo, scorrevoli su un filo di ferro a mezza altezza. Durante i frequenti cambiamenti di scena si chiudono, e mentre al di sopra o dietro si vedono i fondali salire e scendere, vi si proiettano addosso le frasi di spiegazione. Fanno cioè lo stesso uso dei “siparietti” nelle riviste di Dapporto e Tognazzi. Quando si aprono, si trasecola di fronte allo smisurato squallore di quel che si trova sul palco: confrontato col fasto rosso- e-oro della sala prende subito una “carica” simbolica se non addirittura simbolistica. Come la colomba di Picasso sul sipario grande che si muove di rado: bestiaccia anche lei emblematica delle misteriose ambiguità irrisolte di questo teatro soidisant laico, perché l’ultima volta che la si era vista era fatta di pasta di panettone e festeggiava la Santa Pasqua con un occhio di marmellata e due o tre cedri sotto l’ala.