Il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2016
Dalla Pascale al sessismo che finirà solo quando si potrà dare della cretina a una ministra cretina
Ciascuno, com’è ovvio, può pensare quel che vuole di Francesca Pascale e del suo legame con Silvio Berlusconi. Ma c’è qualcosa di fastidiosamente stonato, nel linciaggio che sta subendo per il solo fatto di essersi affacciata in lacrime a un balcone della suite del San Raffaele mentre il suo compagno era sotto i ferri del chirurgo. E di essere dunque stata fotografata dai paparazzi in attesa lì sotto. Il pensiero dominante è stato subito, in automatico, che la giovane ed esuberante fidanzata dell’ex Cavaliere l’ha fatto apposta, per farsi immortalare in quell’atto di commozione. Dunque le sue lacrime dovevano essere per forza false, simulate per biechi motivi autopromozionali. “Don’t cry for me Olgettina”, era il commento più benevolo sui social. Non siamo mai stati tra i fan della Pascale, anche perché ricordiamo bene quando e perché fu annunciata coram populo la sua presenza fissa accanto a B. Fu ai primi del 2011, quando l’allora presidente del Consiglio doveva stornare da sé gli effetti nefasti del caso Ruby col contorno di Olgettine e limitare i danni di uno scandalo che lo minacciava più nell’immagine che per l’indagine.
Da vecchio puttaniere, il Caimano si trasformò in un lampo in un monogamo impenitente, innamorato perso della popolana dei “bassi” napoletani, già fondatrice dei comitati “Silvio ci manchi”. Questo almeno fu il quadretto idilliaco che non solo gli house organ del partito azienda, ma anche fior di Telegiornali Luce e giornaloni “indipendenti” si affrettarono ad accreditare. All’epoca B. era ancora il padrone dell’Italia e la cosiddetta libera informazione aveva poco da scherzare. Ora che invece B. conta poco o nulla, è fin troppo facile svillaneggiare non lui, ma la Pascale che, a differenza dei Verdini, Bondi, Alfano, Fitto, Cicchitto, Schifani e Bonaiuti, non ha abbandonato la nave che affonda. Si dirà: le conviene. Certo. Ma siamo sicuri che i legami affettivi tra partner potenti e sconosciuti della politica, dell’imprenditoria, dello spettacolo e dello star system siano tutti assolutamente disinteressati, tranne quello tra Silvio e Francesca? E chi oggi spara sul bersaglio più facile – la “Calippa” – è proprio sicuro che l’avrebbe fatto cinque o sei anni fa? E, nel caso, perché non lo fece? E cosa ci sarebbe di strano se, dopo anni di convivenza più o meno interessata, Francesca Pascale l’altroieri fosse sinceramente commossa mentre “il Presidente” – come lo chiama lei, anche in privato – affrontava un intervento chirurgico da cui, a quasi 80 anni, poteva anche non uscire vivo?
Gli italiani sono primatisti mondiali di salto sul carro del vincitore, ma anche di discesa libera dal carro dello sconfitto, e pure di calcio dell’asino. Ma non si vede che fastidio possa dare una foto della compagna di B. che piange da una finestra mentre lui è sotto i ferri. A parti invertite, se la scena avesse riguardato la compagna di un leader di centrosinistra (e anche lì non mancano i fulgidi esempi di pupe raccomandate dai capi), probabilmente gli insultatori scatenati avrebbero usato ben altri toni. Già ci pare di leggere i loro commossi ritratti, con la penna intinta nelle lacrime e nella saliva, della first lady che attende amorevole e apprensiva il compagno fuori dalla sala operatoria. Sono gli stessi che, quando B. piazzava le sue girl in Parlamento e nei consigli regionali, si stracciavano giustamente le vesti al grido di Se non ora quando. Ma quando la stessa cosa accadeva (e ancora accade) sul fronte dei “buoni”, tutti zitti. Anche la patente di “sessismo” viene distribuita con gran parzialità e doppiopesismo. Qui la Pascale non c’entra più. Ma, appena qualcuno domanda con quali curriculum una Madia sia diventata capolista del Pd veltroniano a Roma e poi ministra, o una Boschi sia assurta al rango di madre costituente, è un fottuto sessista. In compenso, fior di leader del centrosinistra e opinionisti al seguito non si fanno alcun problema a dipingere la Raggi e l’Appendino come due decerebrate “eterodirette”, anche se hanno esperienze politiche (cinque anni all’opposizione nei consigli comunali di Roma e Torino) molto più robuste di quella della Marianna prima di diventare ministro e della Mariaele prima di ascendere al posto che fu di Calamandrei, De Gasperi e Croce.
A gennaio, dopo aver finalmente trovato la sede del suo ministero, la Madia si vantò di aver appena fatto approvare una legge che licenziava “entro 48 ore” i “furbetti del cartellino”. Poi si scoprì che la legge non esisteva, tant’è che se ne riparla in questi giorni, ma ancora non s’è vista. In un altro paese, si sarebbe posto il problema della sua adeguatezza a ricoprire quel ruolo. Da noi, nulla di tutto questo: anzi, chi dubita della sagacia della ministra della PA è un maschilista schifoso. L’altro giorno la Boschi, fra una balla sulla Costituzione e l’altra, ha minacciato di tagliare i fondi alla città di Torino se vincesse, anziché Fassino, l’orrenda Appendino. Come se quei soldi fossero suoi o del Pd, e non dei cittadini. Una sconcezza da cui ha preso le distanze, con un certo imbarazzo, lo stesso Fassino. In un altro paese, la Boschi si sarebbe dovuta dimettere all’istante, non riuscendo a distinguere l’imparzialità delle istituzioni dalla bottega del suo partito. Invece è rimasta al suo posto e ha fatto pure la spiritosa, invitando l’Appendino a occuparsi di Torino (cosa che, appunto, stava facendo).
Il sessismo finirà solo quando si potrà dare della cretina a una ministra cretina. Ma sarebbe già un bel progresso se tutte le donne venissero trattate allo stesso modo, a prescindere dal fidanzato o dal partito. Senza passare continuamente dal Se non ora quando al Se non ora mai.