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 2016  giugno 16 Giovedì calendario

«Mi sentirò sempre un mafioso». Salvatore Badalamenti si racconta

La voce è roca, bassa. E le poche parole che dice devono essere interpretate, capite. L’accento, nonostante i tanti anni vissuti al nord, tradisce l’origine siciliana. Gli occhi sono penetranti e ci fissano di continuo, quasi a voler scrutare la nostra reazione. Il prossimo 23 luglio compie 70 anni, una ventina dei quali trascorsi in carcere per associazione mafiosa. Il suo nome è Salvatore Badalementi, nipote del più noto Gaetano Badalamenti, meglio conosciuto come don Tano, boss dei boss legato a Cosa Nostra, che nel 1987 fu condannato negli Stati Uniti a 45 anni di carcere in una prigione federale per essere stato un capo della cosiddetta  «Pizza Connection»: un traffico di droga di 1,65 miliardi di dollari. E prese anche un ergastolo perché ritenuto il mandante dell’uccisione del giornalista Giuseppe Impastato. Salvatore Badalamenti ha dunque un passato pesante, un cognome importante, con parenti ingombranti e chissà quali misteri insoluti nell’armadio che però non rivelerà mai perché è, come dice lui,
«uomo d’onore». Che ammette di essere stato un mafioso ma dice anche  «ho pagato il debito con la giustizia e ho cambiato vita».
Parliamo seduti ad un tavolo di un bar di Brescia, che lui stesso ha scelto come punto di incontro. Ci concede questa chiacchierata perché abbiamo scoperto che in carcere aveva scritto un racconto autobiografico che tratta di un cane brutto che cercava affetto e che morì senza un perché. Una cane che, quando faceva le feste, aveva il difetto di mostrare i denti, convinto di sorridere. E questo faceva credere a tutti che fosse un animale cattivo...  
Un Badalamenti narratore, dunque?  «L’ho scritta quando ero in carcere all’Asinara. Erano di fatto delle riflessioni su chi dice di esserti amico ma poi ti resta accanto solo quando conti». E abbozza a un sorriso che pare proprio il ghigno del cane della sua storia. Gli facciamo notare che quella bestia finisce per essere ucciso.  «Si può morire in tanti modi, anche nell’animo». Beve solo acqua non gassata e ha smesso di fumare per via di molti acciacchi, più o meno seri. Si scusa per il ritardo, ma «ho avuto problemi con mia madre». Sua madre è donna Maria Pellerito, 102 anni, con una vena di nobiltà, malata, ma dallo spirito sempre battagliero. Una donna che lo stesso Badalamenti giudica  «oppressiva che deve sempre averla vinta». Ma aggiunge anche che è  «una madre coraggiosa, che cammina sorretta da un amore senza fine, sfidando il tempo per non lasciarmi  «solo».
E va indietro nel tempo, quando a soli 11 anni suo padre muore di cirrosi.  «Una perdita drammatica. Se ne andò nel giro di pochi giorni. E da quel momento cominciai senza rendermene conto a rifiutare tutto e tutti. Con lui il mio futuro sarebbe stato certamente diverso. Ho vissuto degli episodi che mi hanno segnato».
Vuole raccontarli? «A 17 anni andai a vivere da un cugino a Cervinia. Stavo bene e vi rimasi fino a 24 anni, quando mia madre volle a tutti i costi riportarmi in Sicilia. Mi diedero un posto fisso in esattoria dove mio zio, il fratello di mia madre, era il direttore del demanio. È stata la mia rovina: allora dicevano che erano tutti mafiosi e che io avevo avuto la spinta dai mafiosi. Comunque il lavoro d’ufficio non faceva per me».
E il cane?  «Scodinzolava felice, pensando di essere amato, ma tutti avevano paura del suo aspetto e non conoscendo il suo intimo, lo sfuggivano spaventati».
Lei ha sempre ammesso di essere stato un mafioso, ma cosa vuol dire?
«Negli anni ’50 le persone di rispetto erano il sindaco, il prete, il farmacista, il maresciallo e il mafioso. Al mafioso la gente chiedeva dei favori e lui glieli faceva».
In cambio di cosa? «Niente. Erano le stesse persone che avevano ricevuto il favore a ringraziare con regali, anche di poco conto. In quegli anni ho vissuto tra persone rispettate e si faceva un distinguo tra mafioso e criminale».
Perché è venuto ad abitare nel bresciano? «Nel 1980 lavoravo per una fabbrica di Orzinovi. Allora a Brescia si facevano soldi a palate, soprattutto nell’abbigliamento all’ingrosso. Io conobbi una donna che aveva un magazzino all’ingrosso di capi femminili, mi misi con lei e mi buttai a capo fitto in quel lavoro».
Tanti anni di galera, ci sono dei rammarici?  «Quello di non essere stato un padre e un marito presente in famiglia. Se tornassi indietro non mi sposerei più per non far soffrire le persone. Per non dare infelicità agli altri».
Sul resto tace. Ma quando gli chiediamo se si sente ancora un mafioso, risponde così:
«Una volta un maresciallo in pensione mi disse che lui si sentiva sempre un carabiniere. Lei, immagino, si sentirà sempre un giornalista. Dunque...».