la Repubblica, 16 giugno 2016
I numeri dell’Islanda
Se lassù non s’offendono, si può dire che per una notte l’Islanda è sembrata l’Italia, con la gente che sciamava per le strade di Rejkyavik avvolta nella bandiera nazionale e urlando Afram Iceland, cioè Forza Islanda, mentre il premier Sigurdor Ingi Johansson celermente twittava un sacco di complimenti per quei tredici calciatori già diventati eroi nazionali, con gli inevitabili richiami al dio Thor e a tutto l’armamentario della mitologia nordica. Ma l’isola dei ghiacci vive effettivamente uno stato di trance spirituale, perché limitarsi ad annotare il pareggio con il Portogallo non rende l’idea di quello che è successo davvero, non restituisce l’enormità che raccontano numeri minuscoli che però, se messi in proporzione, diventano giganti.
Per esempio, l’Islanda ha appena un centinaio di calciatori professionisti: significa che uno su quattro è stato convocato per questo Europeo, significa che se impari bene questo mestiere ai possibilità di carriera clamorosa. L’Islanda ha 332 mila abitanti e otto mila di loro l’altra sera erano allo stadio di Saint-Etienne. Il centrocampista Gylfi Sigurdsson li ha fotografati e ha postato la foto su Facebook: “Ecco qui riunito il tre per cento del popolo islandese!”. In proporzione, è come se un paio di milioni di italiani si spostassero per andare a vedere una partita, invece l’Islanda ha tanti cittadini quanti Catania. O quanti ne ha Leicester, dicono loro per citare un nome che va di moda ma gli si addice, e che stanno maliziosamente prendendo a modello. In Islanda 32 persone su mille vanno a vedere le partite allo stadio (da noi sono quattro, otto volte di meno), e non è che il campionato sia elettrizzante. In Islanda, ci sono 615 allenatori di calcio diplomati, ed è il numero di tecnici pro capite più alto al mondo. L’-I-slanda è 35esima nel ranking Fifa (tre anni fa era 135esima): il miglior rapporto tra posizione e numero di abitanti. L’Islanda, in definitiva, ha preso il poco che ha e lo ha reso metallo prezioso, lavorando a fondo sulla qualità, sugli impianti (è arcinoto come il boom calcistico sia avvenuto quando la federazione ha cominciato a costruire campi coperti), sull’istruzione e sull’enorme cultura sportiva del popolo islandese, dove uno su dieci gioca regolarmente a pallone e i tesserati sono 23 mila, 8 mila dei quali donne e ventimila i sedicenni che praticano il calcio come sport di riferimento. Un dato mostruoso, in proporzione. Il campionato è di livello modesto (difatti tutti i convocati all’Euro giocano all’estero) e si gioca dentro bizzarri stadioli incastonati nel ghiaccio, appoggiati alle pareti delle montagne e talvolta pure irraggiungibili, se non con imprese da esploratori: non essendoci rete ferroviaria ed essendo ridotta all’osso quella aeronautica (i voli interni sono spesso cancellati a causa del maltempo), certe trasferte da Reykjavik alla costa orientale possono richiedere anche una ventina di ore di autobus (solo andata) su strade gelate. Il club più titolato, il KR, incassa 90 mila euro di diritti televisivi. La Juventus, mille volte tanto: è sempre nel controluce della proporzione, che s’intravvede la grandezza.
Ora la saga islandese sta prendendo i contorni della favola, il mondo ne parla, siamo già tutti islandesi. I telespettatori si sono entusiasmati per quella specie di grido tribale con cui gli ottomila l’altra sera facevano il tifo, un boato ritmato che farà scuola, benché molto simile a un rito degli ultrà dell’Avellino. In tutto, sono trentunomila gli islandesi che hanno comprato un biglietto per l’Euro, dunque uno su dieci (l’Islanda è, in termini di popolazione, la nazione più piccola che abbia mai partecipato a una manifestazione di questo livello) si metterà in viaggio verso il continente, che per loro è vicino quanto l’America. Sono lontani da tutti, ma in definitiva in mezzo a tutto.
L’altra notte, dopo il pareggio con il Portogallo la nazionale è tornata nel ritiro di Annecy, deliziosa città alpina abbarbicata ai ponticelli di pietra che sormontano romantici canali, decisamente adatta al coté sentimentale di una favola. Lì, hanno riso sopra, con distaccato disprezzo, alle frasi stizzite di Cristiano Ronaldo (“Siete stati piccoli”) che, con stupida arroganza, si era lamentato dell’atteggiamento eccessivamente difensivo dell’Islanda. «Ma cosa si aspettava, che giocassimo come il Barcellona?», gli ha mandato a dire Kari Arnason, difensore del Malmoe che nell’ultima Champions è andato al Bernabeu a incassare otto gol dal Real. Cristiano maramaldeggiò, segnandone quattro. «Per me fu imbarazzante, ma ho trovato imbarazzante anche lui quando, l’altra sera, rifiutava di stringerci la mano dopo il 90’. Alla fine l’ha stretta solo al nostro capitano. È è sicuramente un grande campione, ma non una bella persona. Non è difficile capire come mai la gente ami molto di più Messi». In proporzione (a CR7), questo Arnason è un gigante.