la Repubblica, 16 giugno 2016
Le anime stregate di chi gioca per vizio e non per sfizio
Si entra nel paradiso del possibile. E si sprofonda nell’inferno dell’azzardo. È un vero girone dantesco quello che inghiotte i giocatori. E li incatena alla ruota crudele della fortuna che trascina le loro vite nella girandola capricciosa del caso. Non per nulla nelle sale da gioco tutto gira. Le rotelle delle slot, i congegni delle macchinette mangiasoldi, le insegne luminose. E prima fra tutte la roulette, simbolo stesso dell’arbitrio della dea bendata. Sembra proprio che questi congegni del desiderio non conoscano la dritta via, ma procedano per curve imperscrutabili, per una sorta di moto circolare.
Che i giocatori cercano in tutti i modi di intercettare, perché la giostra prima o poi dovrà pur passargli accanto. E loro devono tenersi pronti per afferrarla. L’attesa si legge nei loro sguardi. Un misto di stupore infantile e di aspettativa messianica. Molti hanno il miraggio impresso negli occhi, come l’insegna del dollaro stampata sulle pupille di zio Paperone. In un caso come nell’altro si tratta di una forma di possessione. È lo spirito della vincita che prende l’anima e la disperde nei labirinti dell’illusione, prima semplicemente ludica, poi drammaticamente ludopatica. Parole, queste, che sono tutte strettamente imparentate con il gioco. Illudere, dal latino in- ludere, significa, infatti, trasformare qualcosa in gioco. Di fatto, una fuga dalla realtà. Che ha un che di divino quando accende la fantasia dei bambini e fa brillare i loro occhi, ansiosi di inventare mondi possibili.
Ma ha un che di diabolico, di stregonesco quando invece lega gli adulti in una fascinazione letale. Ecco perché gli occhi di chi gioca per vizio e non per sfizio sembrano stregati, esorbitati, folgorati, allucinati. Spiritati come quelli di Aguirre furore di Dio, il personaggio folle del film di Werner Herzog, che pensa di aver raggiunto l’Eldorado e invece ha già messo un piede negli Inferi. In effetti il buio delle sale da gioco è una sorta di camera oscura dove va in scena una storia scritta solo con i se e con i ma. Fatta di esaltazioni e di autogiustificazioni. Di delusioni e di recriminazioni. E forse quella che si vive in questa tenebra sfavillante, dove le slot occhieggiano come sfingi fluorescenti, più che una storia è una non-storia. Una fuoriuscita dal tempo. Sapientemente creata da un’industria dell’incanto che mette alla porta la luce del giorno e bandisce gli orologi sbalzando le persone in un mondo parallelo. Per far venire allo scoperto il demone del gioco, ci vogliono però i maestri di verità. I rabdomanti della parola e della visione. Lo sguardo sciamanico di Ferdinando Scianna, che rivela il vuoto di questo mondo pieno di attese. O la scrittura dolorosamente introspettiva di Fëdor Dostoevskij che, giusto un secolo e mezzo fa, scrive un racconto come Il giocatore, paradossalmente proprio per pagare i suoi debiti di gioco. In realtà la sua è la più folgorante antropologia dell’homo ludens, dove l’azzardo diventa una lente per guardare la vita. Che in fondo è anch’essa una scommessa con la sorte. In questo il grande scrittore russo era d’accordo con Platone, convinto che si scopre di più su una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione. Perché il corpo a corpo col destino che, per definizione, impegna il giocatore è lo specchio deformante della condizione umana. Sospesa tra ragione e alea, tra speranza e incertezza. E spesso proprio chi sente di non poter programmare il futuro, se lo gioca.