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 2016  giugno 15 Mercoledì calendario

Dov’è Mario, cioè dove siamo noi. Perché le nostre nevrosi finiscono tutte dentro questa esilarante tenaglia di cliché e contro-cliché

Una delle magie di Dov’è Mario, la serie scritta da Corrado Guzzanti e Mattia Torre in onda su Sky Atlantic per la regia di Edoardo Gabriellini (stasera l’ultima puntata) è un sortilegio rovesciato rispetto a quello che condannò Re Mida: chiunque ne parli si trasforma immediatamente in uno dei suoi personaggi, condannandosi all’auto-irrisione. Confesso perciò un imbarazzo, una titubanza anzi un terrore sacro di cadere nella trappola e adoperare le parole, i tic, gli stilemi castigati da questa strepitosa satira culturale (e forse già la parola “stilemi” suona sospetta)
Guzzanti si sdoppia: Mario Bambea, filosofo e tuttologo televisivo, premio Strega con la La temperatura del bianco, cascame dell’intellighenzia un tempo di sinistra sopravvissuto a se stesso e alla rovina della sua generazione (ma di ciò inconsapevole, come la raffinatissima consorte Milly Colussi Bambea e la sua cerchia di privilegiati), va a sbattere con la macchina (esilarante la circostanza: parlandosi addosso, lamentandosi delle scarse vendite dell’ultimo libro). L’incidente gli provoca uno sdoppiamento della personalità da cui emerge l’altro sé, il sé coatto, l’incolto e lungamente represso Bizio Capoccetti, che passa le serate sul palco di un teatraccio a far sbellicare il popolino con battute sessiste e razziste. E dunque, con quali parole commentiamo questa schizofrenia, con quelle di Bambea, e profluvio di citazioni di Bergson e Lacan, o abbandonandoci al gusto liberatorio della risata che scaturisce dalla greve comicità di Capoccetti?
L’italiano, si sa, gode a vedersi rappresentato in trame che lo mettono in una dubbia luce morale (come nei film di Checco Zalone): ma Guzzanti con questo gioiello usa i codici della commedia, col suo gioco di proiezioni e identificazioni, e le dà una dimensione in più. È tutto un mondo a esser tirato in ballo, quello in via di estinzione della sinistra culturalmente egemone ormai passata al narcisismo della Tv, e quello sottostante dei mostri metropolitani imbarbariti, snobbati dalla sinistra che si fregiava di rappresentarli e difenderli e invece li schifa. Non sono solo due antropologie a scontrarsi: Bambea – “erre” moscia da maître à penser conteso dai festival letterari, ciuffo da filosofo inquieto che fa svenire le donne coi suoi “in un certo senso”, “in una prospettiva”, “nel contesto geopolitico” – contro Bizio – scorretto, volgare, semianalfabeta; ma gli universi a cui appartengono. Oggi che non c’è più un nemico comune da fronteggiare e gli intellettuali sono dileggiati sia da destra che da sinistra, di fronte all’ipotesi che gli italiani scoprano la psicosi di Bambea l’amico borghese-dem diagnostica: “Vent’anni di berlusconismo, vedi che succede dopo vent’anni di berlusconismo”, e lo psicanalista: “Qui si rischia che crolla tutto, rischia di crollare tutta la sinistra!”.
La maschera di Guzzanti si presta a entrambe le caricature con un’aderenza ammaliante, e il tema del doppio, espediente della tragedia e della commedia classiche, calato nel presente scombussolato reinventa la dualità irresistibile dei due “tipi” dell’italiano cinico per troppa cultura o per eccesso di selvatichezza. E, tra i due mondi, l’incomunicabilità totale, un abisso di reciproco disprezzo: “Come puoi andare in quel teatrino popolato da gente volgare, da fascisti!”, chiede la moglie a Mario; “Se tu racconti che so’ un intellettuale me rovini, me sputtani”, geme Bizio al ceffo che minaccia di rivelare ai fan chi egli davvero sia.
Nel vuoto tra il berlusconismo coi suoi anticorpi e l’ottimismo ostentato di oggi, Guzzanti ha registrato il passaggio di Bambea da venerato maestro a solito stronzo mentre il popolo diventava peggiore di chi lo governava. Li ha messi tutti, guide morali e nuovi barbari, nel teatro romano, la cui cifra principale, che sia cafonal o cafona e basta, è la volgarità. Non si può amare nessuno: né Bambea, portavoce di una fatua e sentimentale incoscienza nazionale che si pretende profonda, né Bizio, eroe sotto-proletario di un teatro Tv in cui gli “stocazzo!” e le battute sui rumeni ladri fanno ridere più di quanto facciano riflettere le lezioni di Bambea. Eppure – e questo è uno dei prodigi del coltellino svizzero antropologico di Guzzanti – li si ama entrambi. Come i personaggi supposti sani vicini allo schizofrenico clinicamente accertato: la moglie di Mario che fa “teatro civile” e prende i fiori di Bach; l’analista-ginecologo che cura tutto con la tisana di melissa e il carrubo; l’impresario delinquente che imbarca Bizio all’Odeon per sfruttarlo (“La cosa bella dei contratti nun è quello che c’è scritto, ma quello che nun c’è scritto”); l’assistente di questo, proletaria furba e malinconica che pare uscita da Bellissima; la badante rumena che scrive poesie stracciapalle che piacciono sia agli aristocratici-dem per la loro profondità che agli spettatori dell’Odeon che le scambiano per parodie.
Le nostre nevrosi finiscono tutte dentro questa esilarante tenaglia di clichè e contro-clichè: stasera capiremo, dopo che gli amici l’hanno fatto sparire raccontando in Tv che è in viaggio “sulle orme di Tiziano Terzani”, dov’è Mario, cioè dove siamo noi.