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 2016  giugno 15 Mercoledì calendario

I fegati dei Vietcong e dei Marines morti in guerra ci dovrebbero far riflettere sul nostro rapporto col cibo

Opportunità irrepetibile per me parlare proprio a NY di ceo capitalism, un organismo geneticamente modificato al punto da non poter subire varianti migliorative (quelle peggiorative sono tecnicamente impossibili), ma essere solo accettato o abbattuto. L’ho applicato a un tema che mi sta particolarmente a cuore, il suo rapporto con l’alimentazione.
Una digressione, la guerra del Vietnam e il ’68 hanno rappresentato l’inizio della fine dell’impero americano. A cavallo degli anni ’70 colsi un segnale debole da una notizia, curiosa nella sua marginalità: un confronto sullo stato del fegato dei giovani vietcong morti in combattimento e, in parallelo, dei loro coetanei americani. Gli uni erano, certo a loro insaputa, dei vegani radicali (combattevano cibandosi di riso, verdure, soia, radici trovate nella giungla), gli altri erano gonfi di steroidi, devastati da grassi animali, zuppi di alcool, pregni di droghe. I medici americani uscirono sconvolti dall’esame autoptico dei rispettivi fegati, da fanciulli quelli vietcong, da vecchi depravati quelli dei giovani americani.
Le élite progressiste (attenti, sono tali sono fin che stanno nel perimetro dei loro salotti) ci vendono la bugia, infiocchettandola, che il loro modello ridurrà la fame del mondo. Quel che è certo è che le materie prime alimentari, quindi i cibi globalizzati, scontano, si dice, una qualità sempre più scadente e comportano grandi sprechi a livello di prodotto finale (fino al 40% in UK). Oltre a un consumo folle di suolo, di energia, di materie prime pregiate, e così via. Ora, in America si sono palesate due teorie.
Gli scienziati vegani temono un ulteriore deforestazione per il bisogno di alimentare i 7 miliardi di persone (in aumento) se continuano a cibarsi nelle modalità attuali. Lo studio Nature comunications analizza ben 500 scenari di produzione/consumo a seconda delle diverse diete oggi in essere. Le conclusioni sono state: con quella vegana nessuna deforestazione è necessaria, quella vegetariana è sostenibile al 94%, se quella onnivora dell’Occidente fosse estesa tal quale al resto del mondo la sua sostenibilità cadrebbe al 15%, in netto miglioramento invece se il consumo si orientasse, anziché sul bovino, sull’avicolo e sul suino. In conclusione, in futuro se appartieni all’1% della popolazione, oltre al banale caviale, potrai permetterti di mangiare una fiorentina o una coda alla vaccinara.
Il Food & Drug Administration (Fda) invece si è finalmente posto la domanda chiave, purtroppo quando i buoi sono scappati: «Che vuol dire organic (naturale)?» Non è ancora evidente, ma alcuni markettari americani mi dicono che è in rapida crescita un approccio al cibo molto europeo, vogliono carne esente da ormoni e da farmaci, prodotti ogm free, insomma stanno sposando il «principio di precauzione» tanto odiato dalle multinazionali anglosassoni e ridicolizzato nei salotti nostrani. Non essendo gli americani ideologici è una delle buone notizie che porto a casa.
Secondo il Nyt gli americani delle élite spendono ormai 40 miliardi $/anno per cereali, pane, yogurt, bevande, etichettate organic. In Europa significherebbe «senza pesticidi, ogm, ormoni, ingredienti artificiali», in America no, è ancora marketing.
Ora però Fda l’ha presa sul serio, ha appena concluso una consultazione pubblica durata un anno, e starebbe pensando a dire «Basta!» e dare la denominazione organic a tutto ciò che non comporta un intervento umano. Si è aperto un dibattito che ho molto apprezzato, perché dimostra la serietà con la quale affrontano il tema. Trascrivo un caso emblematico: «Una pesca biologica è ancora organic se viene tagliata e conservata nell’acido citrico, ottenuto da limoni bio? Che succede invece se è conservata nello sciroppo ricavato da frutti transgenici?». Primi passi per perseguire quelle aziende che adottano etichette tecnicamente false, come avviene oggi. Speriamo che Fda si sbrighi.