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 2016  giugno 15 Mercoledì calendario

Nel suo journal André Gide racconta meravigliosamente la sua vita e quella degli altri

Roberto Coaloa per Libero
Ecco un’opera eccezionale: le «memorie» di André Gide (1869-1951) appena pubblicate da Bompiani in due grandi tomi, curati entrambi per l’edizione italiana da Piero Gelli, con la traduzione di Sergio Arecco: Diario, Volume I (1887-1925), Edizione francese a cura di Éric Marty (pp. 1568, euro 60),VolumeII (1926-1950), a cura di Martine Sagaert (pp. 3122, euro 60).
 Le abbiamo chiamate, tra virgolette, memorie: tuttavia, quest’opera appare a prima vista come un semplice journal, un diario! Non si tratta, come nella memoria, di indurre la scrittura, in un processo retrospettivo, a ricongiungersi, andando all’indietro con un evento passato per restituirlo al tempo presente. Per questo motivo le pagine di Gide risplendono di uno stile limpido, mai artificioso. Eppure, a nostro modesto avviso, questo Diario è anche una memoria. Sono reminiscenze letterarie, sul gusto di un’età, ormai lontana anni luce da noi. Ernst Jünger non aveva dubbi sull’importanza di questo immenso lavoro: «sarà indispensabile per tutti coloro che vorranno conoscere nelle sue sottigliezze la struttura della nostra epoca».
Uno degli autori più amati dallo scrittore francese è stato Oscar Wilde, che, guarda a caso, osservava: «I never travel without my diary. One should always have something sensational to read in the train». Gide, ovviamente, lo sa: per questa ragione questo suo Diario è scritto soprattutto per noi, che apprezziamo la sua forza, quasi titanica, dove le malizie dello scrittore sono provocazioni, i toni severi sono delle dichiarazioni, le lunghe osservazioni sono delle confessioni.
Interesse primario di queste pagine è ovviamente il coté letterario, di critica. E anche il musicologo trova pane per i suoi denti: numerosissimi gli appunti su Chopin, sulle interpretazioni di Cortot, che Gide non ama. C’è anche l’amicizia con Stravinskij, che anziché di musica parla a Gide di Tolstoj, invitandolo a leggere (ma lui non ama Tolstoj e rileggerà con qualche disappunto Il diavolo, seguendo il consiglio di Malraux). Thomas Mann è adorato, ma Gide critica i dialoghi troppo lunghi nel Zauberberg. Lo trova geniale, invece, in Lotte in Weimar. Scopriamo un giudizio ambivalente su Cocteau. Gide prova affetto per la sua persona, ma non gli perdona l’influenza «perniciosa» sugli amici, come Pierre Herbart, un povero scrittore, disceso negli inferi dell’alcolismo, bagnati da cocktail e resi più rischiosi dall’oppio.
Di Paul Valery c’è un gustoso aneddoto. È il 1929. Il 27 ottobre il poeta conversa con Gide, che scopre che da molti anni non scrive nulla se non su commissione, costretto dal bisogno di denaro. Non scrive per piacere! Valery gli confida: «Per il mio piacere avrei fatto ben altra cosa che scrivere. No, no; non ho mai scritto nulla e non scrivo nulla se non costretto, forzato, imprecando». È il 1936. Gide è appena salpato da Marsiglia, direzione Algeri. È un grande scrittore di sessantasette anni. In mare legge tantissimo. Il 19 febbraio, annota: «Letto l’ultimo libro di Colette con interesse vivissimo. C’è molto più del talento: una sorta di genio spiccatamente femminile e una grande intelligenza. Che scelta, che ordine, che felicità di proporzioni, in un racconto in apparenza così sbrigliato!».
Altri giudizi: Il muro di Sartre è «notevole». I versi di Charles Péguy «sono tra i peggiori che abbia letto e che siano stati messi insieme in qualsiasi lingua».
Tra i russi, Gide ama Dostoevskij e non perdona a André Suarès di aver scritto un saggio sul «proprio» autore. Annota: “Le sue osservazioni, per giuste che siano, sono osservazioni da prima lettura. Una più lunga frequentazione lo avrebbe indotto a mettere in luce motivi di ben altra importanza. Le «frasi» che cita (in particolare) sono appunto quelle che colpiscono a una prima lettura; e sono sicuro che non sarebbero le medesime che Suarès citerebbe oggi. Sicuramente, oggi, le troverebbe (come le trovo io) di qualità un po’ scadente, un po’ «frasi da teatro, a effetto, di quelle che incontrano l’approvazione e l’applauso dei semiletterati, dei semideficienti».
L’interesse del Diario di Gide è costituito anche dalle tante pagine dedicate alla storia, quella a lui contemporanea. Sulla Seconda guerra mondiale, lo scrittore francese annota il 14 ottobre 1940: «La grande forza di Hitler deriva dal fatto che ha appagato con le parole solo e sempre gli altri. E purtroppo sa che cosa ci vuole per i francesi! E che quando si dice loro con forza e frequenza che l’onore è salvo, finiscono quasi per crederci».

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Luigi Mascheroni per il Giornale
André Gide non ebbe propriamente una vita da romanzo, ma seppe raccontarla meravigliosamente come tale. Infatti il suo libro più riuscito e più romanzesco, scritto dallo stesso personaggio principale, è il sontuoso, strabordante, impetuoso diario che tenne per quasi tutta la vita, dal 1887, meno che ventenne, fino a pochi mesi prima della morte, nel febbraio 1951. Ed ecco 63 anni di eventi, anedotti, letture (Gide è un grafomane impenitente, ma anche un lettore formidabile: legge sempre, tantissimo, di tutto, più libri contemporaneamente, anche a voce alta a sua moglie, e poi rilegge, commentata, stronca, per esempio Pan di Kunt Hamsun: «odore, sapore, ma niente più dell’odore e del sapore. La sostanza non c’è.... Fame era superiore»), e poi aforismi, battute («Ingannerò l’attesa solo con la noia»), viaggi, concerti, musei (la visita alla sezione dedicata all’Estremo Oriente del Trocadéro: «istanti bellissimi, grazie ai quali dimentichiamo tutte le magagne della vita», 21 gennaio 1908), cronache delle guerre («Solo le arti della guerra, dall’inizio della civiltà, hanno fatto progressi», 15 novembre 1914), propositi per nuovi libri e soggetti da romanzo, incontri e amicizie (quando passa le serate a parlare con Proust di «uranismo», cioè di omosessualità, o i battibecchi con Paul Valéry sull’importanza della forma in letteratura)... Un’opera-monstrum - pensata e ostinatamente perseguita, pur con pause altalenanti, per essere pubblicata - che finalmente appare da noi in tutta la sua ciclopica completezza grazie a Bompiani che, dopo aver già pubblicato gran parte dei diari negli anni Cinquanta, oggi traduce l’edizione della Pléiade (la prima completa perché i curatori francesi hanno recuperato anche le parti che l’autore teneva nel cassetto, ritenendole, per vari motivi, non pubblicabili) in due volumi di 3260 pagine, tra testo, note, varianti e appendici. Come scrive Piero Gelli, curatore dell’edizione italiana: «Non esiste in tutto il ’900, un Diario così affascinante, divertente, coinvolgente». E così pieno di cose, persone, idee che è impossibile riassumere in un articolo di giornale. Ma che - leggendo le parti fino a oggi mancanti, che nel testo appaiono in un carattere tipografico diverso - si può almeno spulciare.
PERCHÉ SCRIVERE «Scrivo perché temo di dimenticare. E tutto ciò non esiste già più se non nel mio ricordo. Ma può essere che il ricordo delle cose passate persista oltre la tomba» (5 gennaio 1890).
TRA SESSUALITÀ E MISTICISMO Gide negli anni ’80 dell’800 ebbe un periodo di esaltazione religiosa, ma «fornicò» tutta la vita: «A volte mi domando se quest’ossessione della castità non sia una forma di vanità, una delle più fallaci... e a che prezzo, Signore? Adesso, però, ho troppo separato il corpo dall’anima, non ne sono più il padrone; ciascun elemento va per conto suo. L’anima sogna tenerezze ancor più caste - la carne sguazza non so bene in quale fanghiglia» (gennaio 1890).
L’ARTE DEL PECCARE «Avete notato che il poeta non può peccare? Non può peccare senza cessare di essere poeta. Peccare, per lui, è cessare di essere poeta. La morale per lui è essere per sempre poeta. L’artista non può peccare. Il che suscita sgomento» (15 maggio 1892)
IO SONO (ANCHE) LORO Personalità che - rivela Adrè Gide - hanno contribuito a formare la sua: Eschilo, Pascal, Schopenhauer, Flaubert, Poe, Bach, Schumann, Chopin, Leonardo da Vinci, Rembrandt, Poussin (l’elenco completo è in un foglio sparso del 1894).
CHE PESSIMI COLLEGHI! «L’uno dopo l’altro vedo arrivare al successo scrittori che non vorrei neppure avere come lettori, il cui pensiero semplicistico e superficiale mette in mostra con facilità quelle poche cose che è in grado di mettere in mostra» (18 agosto 1898).
IL VIZIO PEDOFILO Andrè Gide nel Diario confessa più di una volta di «innamorarsi» di ragazzini. In un viaggio in treno a Weimar (l’appunto è dell’agosto 1903) ricorda l’approccio con un affascinante quattordicenne: «Mi alzai, mi misi dietro di lui; subito cominciammo a sfiorarci le mani con la punta delle dita. Io non avrei avuto il coraggio, ma fu lui a forzarmi. Vidi, sentii che provava piacere. Poi, di nuovo sdraiato a metà sul sedile, mise mano alla coperta; così semplificò i suoi approcci, poi li semplificò ancor di più. Arrivò una galleria...».
COSA CI SIAMO PERSI Gide, omosessuale, dopo una tormentata relazione, nel 1895 sposa la cugina Madeleine. A cui scriverà moltissime lettere, per molti anni. Dopo un viaggio di lui in Inghilterra con il giovane amico Marc Allégret, lei brucia tutta la corrispondenza. Gide impazzisce di dolore. «A lei sola scrivevo con abbandono. Non una nube, mai il minimo soffio gelido tra noi. Forse non sarebbe mai potuta esistere una corrispondenza più bella - infatti non basta dire che vi era contenuto il meglio di me: vi era contenuto anche il meglio di lei, poiché non scrivevo mai per me stesso» (21 novembre 1918).
CIBO, VADE RETRO Gide adora la musica, i libri, la conversazione, il teatro, va ogni tanto persino al cinema. Ma non prova alcun interesse per il cibo: «Preferisco un’ora di lettura o di pianoforte al più fastoso pasto di questo mondo» (28 maggio 1921); oppure: «Niente più mi dispiace e mette più a disagio la mia coscienza dello spendere troppo a tavola» (5 ottobre 1928).
COMUNISTA LONTANO DALL’URSS Gide si avvicina fin dagli anni Venti al Comunismo, che poi di fatto sconfesserà dopo il viaggio del 1936 in Urss dove lo scrittore trova, invece dell’Uomo nuovo, solo totalitarismo. «Il comunismo lotta contro la proprietà privata, individuale. E il mio individualismo si concilia benissimo con questo» (18 maggio 1931); «Che il comunismo vada superato, può anche essere. Ma prima di tutto occorre arrivarci (26 luglio 1934); «Ho dovuto riconoscere il mio errore: nel comunismo speravo di trovare delle virtù cristiane» (14 luglio 1941).
LA GRANDEZZA DELLA FRANCIA Scritto poco dopo lo sbarco in Normandia: «Quel che salta agli occhi, e che gonfia il mio cuore di fiducia e di speranza, è il fatto che la Francia uscirà ingrandita dall’aspra lotta in corso. Più profondo è stato lo sgomento per la disfatta, più appare straordinaria la nostra ripresa. Sembrava davvero che la Francia avesse toccato il fondo; eppure proprio dal suo stato di estrema disperazione ha attinto il suo nuovo vigore Da questo bagno di sangue e di orrore la Francia uscirà ringiovanita» (5 luglio 1944)
UN NOBEL POCO PUBBLICATO Nel 1947, anno a partire dal quale non scriverà di fatto più nulla, Gide vince il premio Nobel. Non ne parla molto nel Diario, anzi: «Un avviso nella vetrina di una delle più importanti librerie di Neuchâtel avverte gli acquirenti e previene il loro disappunto: Molte persone desiderano sapere quali opere di A.G., il nuovo premio Nobel, sono attualmente disponibili (segue breve elenco). Così i miei libri continuano a essere introvabili; anzi, dopo il premio, ancora più introvabili, anche se oggetto di sempre maggiori richieste» (12 gennaio 1948).
DOVE RIFUGIARSI «DOPO»? Poco prima di morire Gide sta curando la versione teatrale dei Sotterranei del Vaticano. Ecco l’ultima frase del Diario: «Prove per tutto il giorno. Non reggerò fino alla sera della prima; ma dove rifugiarmi?» (21 novembre 1950).